la Repubblica, 6 dicembre 2018
L’autunno di Tanzi. «Parmalat? Dovevo essere più furbo»
PARMA «Parmalat? Non me ne occupo più. Non posso nemmeno andare a Collecchio. La mia vita? Quella del pensionato agli arresti domiciliari. Posso uscire tre ore ogni mattina, mi occupo del giardino di casa, in questi giorni colgo i rami caduti con il vento. E mi godo sei nipoti. La mia gioia». Sono le 11.55 di mattina. I 180 minuti d’aria giornalieri stanno per scadere. Calisto Tanzi è appena sceso dalla piccola utilitaria grigia guidata dalla moglie Anita Chiesi (lui ha lasciato scadere la patente) davanti alla villa di famiglia a Fontanini di Vigatto.
Quindici anni fa («a me pare un secolo»), proprio in questi giorni di dicembre, il suo impero di latte stava andando a pezzi, bruciando 14 miliardi e i soldi di 145mila risparmiatori. Oggi, sulle spalle una condanna definitiva a 25 anni, Tanzi (come tutta la sua famiglia e i collaboratori di allora) sta provando a voltare pagina. Di quel periodo, dei rimorsi, delle colpe e del passaggio della Parmalat ai francesi non vuol parlare. Ogni parola pesa. Specie in vista della richiesta di libertà vigilata che i suoi legali – grazie a patteggiamenti e buona condotta – vorrebbero presentare la prossima primavera. «Dovevo solo scantarmi prima», ammette mentre recupera la posta dalla casella e posa i sacchetti della spesa sul sedile posteriore della macchina. Si rimprovera di non essere stato più furbo, acqua passata, comunque. «Non tornerò a lavorare di sicuro – dice ridendo – Ho compiuto 80 anni il 17 novembre, mi hanno appena operato d’ernia». E così, dopo tre anni di carcere e una piccola consulenza a un amico che voleva aprire una fabbrica di muffin, Calisto si è messo il cuore in pace: con il lavoro è finita. Ha fatto togliere dal giardino di Fontanini l’ultimo ricordo dell’era Parmalat – la mucca pezzata gialla e blu a grandezza naturale ricordo degli anni gloriosi in cui il suo Parma vinceva la Coppa delle Coppe a Wembley – e ha utilizzato i rari permessi ottenuti dai giudici per i pellegrinaggi al Santuario della Beata Vergine di Fontanellato. «Con il passato ho chiuso, sto pagando i miei conti con la giustizia – spiega – ora voglio solo fare il nonno».
Tra i reduci del crac Parmalat è l’unico ad aver tirato i remi in barca e a non essersi regalato una second life. Il “ragioniere” Fausto Tonna, il suo ex-braccio destro, si è riciclato alla grande.Ha scontato la sua pena, ha voltato le spalle a Calisto («un vigliacco che ha scaricato le colpe sui sottoposti») e vive ancora a Collecchio («in paese lo vediamo spesso, come molti altri manager d’allora», dice il sindaco – e dipendente Parmalat – Paolo Bianchi). Oggi Tonna è manager alla Prisma, società che fa porte per ascensori a Casale Mezzani, pochi chilometri da Parma. «Mi spiace, non sono disponibile a parlare», risponde telegrafico al telefono l’uomo che grazie al suo carattere un po’ fumantino ha tenuto in scacco i vertici delle grandi banche d’affari prima del crac ed è diventato il protagonista – quasi un eroe positivo – de “Il gioiellino”, il film che il regista Andrea Molaioli ha dedicato alla vicenda Parmalat.
L’azienda, per sua fortuna, è sopravvissuta. Salvata prima dal commissario Enrico Bondi e scalata poi con sei miliardi (segno che valeva qualcosa) dai francesi di Lactalis che «hanno mantenuto un forte radicamento sul territorio e hanno appena regalato a Collecchio un taxi sociale», dice Bianchi. Stefano e Francesca, i due figli di Calisto che lavoravano della galassia di famiglia, hanno però preferito cambiar aria e ricominciare lontani da qui. L’ex presidente del Parma Calcio si è trovato un lavoro alle Ceramiche Ricchetti. Prima a Reggio Emilia – come consulente per la selezione di personale – con uno stipendio di 2mila euro al mese. Ora a Londra, dove è Head of promotion per la Ricchetti surfaces e la linea di piastrelle griffate Cavalli. Francesca è emigrata in Veneto continuando a lavorare nel mondo del turismo. L’unica che è rimasta a Parma è Laura, la figlia che lavora nella farmacia di fronte allo stadio Tardini di mamma Anita (proprietaria con i fratelli del colosso farmaceutico Chiesi) finita nel ciclone del crac di rimbalzo solo perché il marito Stefano Strini aveva custodito – e nascosto in alcune cantine a Roma – la collezioni di quadri di casa Tanzi scoperta e sequestrata nel 2009 dalla Finanza. Opere di Picasso, Modigliani, Cezanne e Van Gogh, un tesoretto stimato allora 100 milioni.
A Collecchio è rimasto invece Claudio Pessina, il manager che prese a martellate i computer della sede centrale di Parmalat per provare a cancellare le prove delle truffe. Il suo know-how finanziario e quello nel campo mazze e affini non sono andati del tutto sprecati: il nome di Pessina compare alla voce “tesoriere” sul sito della squadra di baseball del paese.