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 2018  dicembre 06 Giovedì calendario

I riti della mafia nigeriana: lacrime e sangue per affiliarsi

L’avevano aggredito in otto con asce e coltelli per obbligarlo ad affiliarsi al loro clan, quello degli Eiye, uno dei gruppi più pericolosi e violenti della mafia nigeriana, e costringerlo ad assumere il ruolo di “schiavo”, il più basso in grado. «Al mio rifiuto, “Prince mafia” mi ha detto che altrimenti mi sarebbe successo qualcosa, che ovunque fossi andato non sarei mai stato al sicuro, e così la mia famiglia in Africa». L’avevano costretto a salire su un’auto, continuando a intimorirlo e a mostrargli le armi, e a seguirli in una casa in via Stradella, quartiere popolare di Torino. «Scendi o ti tagliamo la testa», gli avevano detto tirandolo giù dalla Peugeot. Poi, in casa, in tre l’avevano portato nella camera da letto. «Mi hanno strappato la camicia, mi hanno tolto le scarpe, mi hanno buttato a terra. Poi hanno iniziato tutti e otto a picchiarmi con calci, pugni e bastoni». Ed è cominciato il rito d’iniziazione: «Consiste nell’avvicinare peperoncino sulla testa e la faccia e nel ferire il corpo con un rasoio. Il peperoncino fa lacrimare l’occhio, loro raccolgono la lacrima che viene mescolata con il sangue delle ferite. Lacrime e sangue vengono mescolate con alcol, riso e tapioca, viene chiesto di giurare fedeltà e totale silenzio sulle pratiche dell’organizzazione. Al nuovo affiliato viene detto quanto deve pagare ogni mese al capo, e diventa “schiavo” di tutti i componenti, perché è l’ultimo arrivato. Poi, nel gruppo, sali di grado in base a quanti reati commetti». Nel suo caso, però, il rito non si era concluso: un vicino di casa, attirato dalle grida, aveva interrotto la cerimonia. Ma è anche da questo terribile racconto di quanto accaduto il 18 luglio 2015 che è nata l’ultima costola di una vasta indagine sulla mafia nigeriana, coordinata dai pm Stefano Castellani e Chiara Maina, che un anno e mezzo fa avevano chiesto misure cautelari per 15 persone, 9 delle quali ritenute esponenti del clan degli Eiye. Solo la metà è stata sinora rintracciata, come era accaduto già due anni fa nella tranche principale dell’indagine, quando erano stati trovati ancora in Italia solo una ventina dei 44 ricercati.
L’ordinanza del giudice Riccardo Ricciardi in 567 pagine ricostruisce modalità, traffici di droga e prostituzione, regole e aggressioni portate avanti da uno dei più pericolosi “cult”, le confraternite nate dagli anni ‘60 nelle università. Quella degli “Eiye”, che in dialetto Yoruba significa “uccello”, si articola in nidi. A Torino c’è il “Quercia nest”, a Padova il “Nocean nest” e a Cagliari il “Calipso nest”, dove gli affiliati si distinguono con nomi di uccelli e ai meeting si presentano facendo il loro verso. Ma i “cult" sono molti e in lotta fra di loro, si distinguono dal colore dei vestiti e ricorrono a torture e amputazioni quando qualcuno invade il loro territorio. A contrapporsi ci sono i “Black Axe”, gruppo sgominato nel 2005 da un’inchiesta della procura di Torino che, prima in Italia, ha individuato l’esistenza di questa mafia straniera. E i “Maphite”, più sofisticati, divisi in famiglie con boss chiamati “don” che ricordano molto le mafie nostrane. «In fondo nel film Il padrino c’è tutto – spiega il procuratore vicario Paolo Borgna – Anche queste mafie si muovono con le migrazioni e si radicano nelle comunità di connazionali, che da una parte temono questi clan, dall’altra cercano di ottenerne protezione e aiuto quasi si rivolgessero a un patronato.
Mentre i sodali pretendono omertà, favori e il pizzo da parte di chi ha attività commerciali». Gli “schiavi” sono costretti a versare 600 euro per l’affiliazione, mentre un “don” guadagna 35mila euro in tre mesi. E se si considera il business della droga e della prostituzione, si può immaginare quanto sia elevato il giro d’affari dall’Italia alla Nigeria anche grazie ai servizi di money transfer.