il Fatto Quotidiano, 5 dicembre 2018
Castellucci, il vincente d’insuccesso recita il falso passo indietro
Giovanni Castellucci, supermanager autostradale di 59 anni, è un eroe del declino italiano. Parafrasando Giorgio Albertazzi – inventore del “perdente di successo” – Castellucci è un vincente d’insuccesso, l’epitome di quel capitalismo che elegge l’avidità a imperativo etico. Il caso di Autostrade per l’Italia (Aspi) è eclatante. Castellucci ha dispiegato per 12 anni la capacità di pompare grassi dividendi. Per non aver prevenuto il crollo del ponte Morandi, Atlantia (la holding controllata dai Benetton) ha perso 5 miliardi di valore. La ricostruzione del ponte costerà 500 milioni? Se Autostrade per l’Italia avesse avuto il braccino meno corto ci avrebbe guadagnato anche montando stralli d’oro. La singola azione valeva 25 euro, oggi 18: in un colpo solo gli azionisti hanno perso sette anni di dividendi.
Eppure Castellucci rimane un vincente agli occhi di una borghesia incapace e spaventata. La sua decisione di lasciare la guida di Aspi e tenersi quella di Atlantia è un passo indietro solo dal punto di vista processuale. Come amministratore delegato della concessionaria è in attesa della sentenza di Avellino, dove l’accusa ha chiesto 10 anni per omicidio colposo per i 40 fedeli di Padre Pio precipitati con l’autobus dal viadotto Acqualonga. E a Genova è indagato per i 43 morti del ponte Morandi. È possibile che la mossa sia stata pensata dal suo avvocato, l’ex ministro della Giustizia Paola Severino, ingaggiata dopo che un’altra star come Franco Coppi si è sfilato, a quanto si dice, per una ragione nota a molti di quelli che trattano con Castellucci: un’irredimibile arroganza, che è anche la sua forza.
La spregiudicatezza nel rapporto concessorio con lo Stato è totale. Al casinò delle Infrastrutture è sempre riuscito a tenere il banco e a dare le carte ai ministri. Il povero Danilo Toninelli è solo l’ultima vittima (per tacere dei complici). Prendete questa invettiva contro Aspi: “Per troppo tempo sono stati abituati ad agire senza regole”. No, non è una diretta Facebook del ministro grillino, l’ha detta il suo predecessore Antonio Di Pietro nel 2007. Partì per suonargliele e fu suonato. Con la nuova convenzione che doveva spezzare le reni ai Benetton e al loro uomo, i pedaggi sono volati: più 30 per cento in sette anni. E con i pedaggi sono saliti i profitti e gli stipendi di Castellucci, fino al record di 6,2 milioni nel 2015. Pensate che dopo l’incidente di Avellino il bonus di Castellucci è salito da 500 mila euro a 1,43 milioni presi l’anno scorso. Meritati, se il parametro è la capacità di dettare legge al ministero.
Pensate alla famosa Gronda: il governo Gentiloni è riuscito a farsi autorizzare da Bruxelles un allungamento della concessione di quattro anni (dal 2038 al 2042) per finanziare la bretella genovese, che è già finanziata da un aumento tariffario del 2002. A quanto pare nessuno ha chiesto a Castellucci dove è finito il quid tariffario che gli italiani stanno pagando da 16 anni.
Un mese fa Lynda Tyler-Cagni si è dimessa dal cda di Atlantia dopo che è stata respinta la sua proposta di congelare (dopo la tragedia di Genova) i bonus di Castellucci e ad altri 60 manager. La manager inglese ha parlato di etica, i colleghi italiani le hanno opposto la fedeltà nel codice civile, per larga parte del capitalismo italiano un principio morale.
Castellucci rappresenta un modello. A Gilberto Benetton, regista finanziario della famiglia azionista di Atlantia, piaceva la sua ruvida concretezza. A Gianni Mion, mente finanziaria della cavalcata trionfale di Gilberto e dei suoi fratelli, piaceva meno. Alla fine, due anni fa, Mion ha mollato la guida operativa di Edizione, la holding dei Benetton, ma al suo posto è andato l’ex numero uno di Telecom Italia Marco Patuano. Castellucci c’è rimasto male e questo è un altro aspetto chiave del personaggio, originario di Senigallia come Pio IX. Le Marche sono storicamente terra di latifondo ecclesiastico dove per secoli i vincenti sono stati i fattori che diventavano padroni. Uno schema di gioco tipico del moderno capitalismo italiano, segnato dalle parabole dei manager emancipati a padroni. Uno su tutti: Cesare Romiti.
È la partita di Castellucci, abituato al gioco duro e per niente spaventato dalla corsa in salita: due procedimenti per omicidio colposo, la morte, il 22 ottobre scorso, di Gilberto Benetton. È proprio nel rimescolamento di carte all’interno della famiglia la partita. All’inizio dell’estate è morto Carlo, il fratello più piccolo dei Benetton, e poco prima di lui un infarto aveva ucciso l’86enne Fioravante Bertagnin, marito di Giuliana. Luciano, l’uomo immagine della dinastia, a 83 anni non sembra intenzionato a riprendere il timone.
La seconda generazione dei Benetton è numerosa e variegata, un po’ come gli Agnelli ma senza l’Avvocato che designò per tempo il nipote John Elkann come successore. Le chiacchiere trevigiane dicono che in questo momento Sabrina Benetton, figlia di Gilberto, e il suo influente marito Ermanno Boffa, commercialista di grido, vogliano perpetuare il legame fiduciario con Castellucci. E che Alessandro, il figlio di Luciano che sembrò predestinato alla leadership prima di eclissarsi, non sarebbe tanto d’accordo. Che una famiglia colpita in pochi mesi da tre lutti e dal disastro di Genova sia frastornata è comprensibile. Ma prevale ancora la costante della via italiana al capitalismo: come sempre sarà un tribunale a decidere la sorte di Castellucci.