Libero, 5 dicembre 2018
Sesso, droga e alcol: le vite da brividi dei giallisti
Hanno intinto la penna nell’alcool, nell’assenzio, nel sangue, per dar vita ai loro romanzi perché, se vuoi raccontare il Male, un po’ devi frequentarlo, avere familiarità con esso, in modo da esorcizzarlo ma anche da farne motivo di ispirazione. I vizi dei grandi giallisti, che in diverse forme hanno sondato il lato oscuro dell’esistenza, abbandonandosi all’ubriachezza, alla droga, alla dipendenza dal sesso o a psicosi e manie, per un verso sono la conseguenza del loro mestiere, che impone la solitudine e costringe a fare i conti col crimine; per un altro verso ne sono la causa, dato che uno stato di ebbrezza, di fuoriuscita dalla noia della vita borghese permette quell’atto estremamente anticonformista che è scrivere. Con il paradosso che la creazione letteraria per loro è spesso coincisa con l’autodistruzione. Ne è testimonianza il vissuto di una delle regine del thriller, Patricia Highsmith, che dal romanzo su di lei appena scritto da Jill Dawson (Il talento del crimine, Carbonio, pp. 256, euro 16,50), e presentato alle 10.30 allo Iulm di Milano nell’ambito della rassegna Noir in Festival, emerge in tutte le sue lacerazioni biografiche: asociale, lesbica e insieme misogina, alcolista, vittima di deliri di persecuzione e tentata da istinti omicidi.
BIOGRAFIA INDULGENTE
«Il mio romanzo», ci dice la Dawson, «è una versione affettuosa della sua biografia. Io ritraggo la Highsmith negli anni trascorsi in Inghilterra, quando beveva ma non era ancora dipendente dall’alcool, aveva slanci di tenerezza e le sue idee paranoiche non erano state portate all’estremo. Molti biografi sono stati meno indulgenti con lei, scrivendo che ?non era una bella persona?». Di certo, la Highsmith era ossessionata dal crimine tanto che, continua la Dawson, «da quando era bambina aveva pensieri di morte e presto arrivò dire che ?la vita non è degna di essere vissuta se dentro non c’è un omicidio?». Questo non significa che un serial writer di gialli poi diventi necessariamente un serial killer, ma che possa avere più di altri pulsioni suicide. Come dimostra un altro celebre scrittore di thriller, come Raymond Chandler, anche lui bevitore incallito che, prima di arrivare al successo, in un colpo solo perse il lavoro, rischiò di farsi lasciare dalla moglie cominciando a frequentare avvenenti segretarie e per poco non morì, sprofondando in una depressione che lo condusse vicino al suicidio. Altre volte le sbornie furono dettate dal troppo successo, come si può dire del ?papà? di James Bond, Ian Fleming che, per identificarsi sempre più nel suo personaggio, prese ad abusare di whisky, a fumare in maniera ossessiva (fumava solo sigarette preparate appositamente per lui) e ad abbuffarsi di cibo. Di lui si raccontavano prodezze come l’aver mangiato 70 baguette e 6 chili di formaggio in una volta sola? Ma, oltre che ingordi di cibo e alcool, alcuni giallisti furono ingordi di sesso, come Georges Simenon, di cui si disse che collezionò più donne che pagine scritte, e non dovevano essere poche visto che produsse almeno 10mila pagine; uno che amava in maniera bulimica così come pubblicava, che si faceva pagare per scrivere e che pagava per amare (spesso i suoi amori furono mercenari).
ESOTERISMO
Alle soddisfazioni carnali altri preferivano proiezioni spirituali, attraverso forme di esoterismo. Padre indiscusso in tal senso è Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes, che si abbandonava a sedute spiritiche, convinto di poter invocare anime di scrittori defunti o di poter trarre motivi di ispirazione. «Se sei uno scrittore di gialli», avverte la Dawson, «inevitabilmente frequenti mondi estremi, territori di confine che hanno a che fare con l’inconscio e il soprannaturale». Per evadere da questo mondo abusò di una sostanza molto meno sacra Edgar Allan Poe, che non fece di Dio l’oppio dello scrittore, ma fece dell’oppio il suo dio personale, tanto da consacrargli la vita. A fronte di questi viziosi, geniali e dannati giallisti, la scrittrice per eccellenza del genere, Agatha Christie, appare quasi come un’educanda, una noiosa signora borghese, tutta tè e biscottini, che non aveva nulla del fascino maledetto di chi scrive di crimine. La Dawson la definisce «una leziosa signora da salotto» convinta che «l’omicidio fosse qualcosa di freddo e calcolato». «Ma un assassinio», continua lei, «non ha nulla di razionale. È un impulso che diventa ossessione e quindi azione violenta. E, a differenza di quanto pensava la Christie, quasi mai alla fine i buoni vincono e i cattivi finiscono in prigione». Perché il mondo è ingiusto. E anche gli scrittori di gialli non sono gente tanto perbene.