In Vice, scritto e diretto da Adam McKay (premio Oscar per la migliore sceneggiatura non originale per La grande scommessa), Bush è interpretato da Sam Rockwell e il ministro degli Esteri Donald Rumsfeld da Steve Carrell; Amy Adams è Lynne Cheney, moglie del vicepresidene, e Tyler Perry è Colin Powell, allora capo di Stato Maggiore. Il film — esce in Italia il 3 gennaio con il titolo Vice — L’uomo nell’ombradistribuito da Eagle Pictures e Leone Film Group — ripercorre l’ascesa di Cheney, oggi 77enne, con gravi problemi cardiaci, da giovane scapestrato e studente perennemente ubriaco ad astuto politico. Bale, gallese di 44 anni, è tornato di nuovo magrissimo e in gran forma, e da venerdì lo vedremo anche in Mowgli — Il figlio della giunga, su Netflix. La sua performance in Vice è già in odore di candidatura ai Golden Globe e agli Oscar (vinse entrambi come non protagonista per The Fighter nel 2011).
Bale, cosa l’ha sorpresa di più di Dick Cheney?
«Per un artista come me è qualcosa fuori portata cercare di capire il livello di potere che un uomo come lui ha avuto. Con il destino del mondo quasi nelle sue mani... Mi sono chiesto: cosa farei io con quel potere? Sorriderei o mi vendicherei? Sarei un mostro in polo e pantaloni kaki? Perché sono convinto che ci siano tanti Cheney dovunque, solo che non hanno ancora avuto l’opportunità di mostrare chi sono davvero».
Cheney dunque come il proverbiale "cattivo"?
«Non esattamente, sarebbe stato troppo prevedibile per la Hollywood "liberal" che ci va in brodo di giuggiole con queste cose. Ma ognuno ha la sua opinione di Cheney. Non lo demonizzare, mi diceva qualcuno; è un criminale di guerra da incarcerare, dicevano altri. Cheney è quel tipo di figura pubblica, oltre che politica, che provoca reazioni viscerali».
Lei cosa ne pensa?
«Mi astengo dall’esprimere le mie idee politiche, rovinerebbe il film. Mi sono attenuto al modo di parlare e ai manierismi di Cheney, ho cercato di essere il cosiddetto burattino nelle mani del regista. Ho studiato tutto di Cheney, e credo di averlo ritratto fedelmente».
Quanto l’invasione dell’Iraq pesa ancora oggi negli Usa?
«Prima di tutto fu una decisione di Cheney, Bush si limitò a obbedire, ricordiamolo. Indubbiamente è stato il vice presidente le cui azioni hanno avuto più conseguenze di chiunque altro. Ha cambiato molto chiaramente il panorama politico soprattutto in Medio Oriente. E fu il fautore dello smottamento nell’equilibrio tra i due grandi partiti americani.
Ma credeva davvero in quello che diceva, tuttora crede di aver fatto bene. A uno così almeno do ascolto, non lo liquido facilmente, dandogli del "fascista" e basta. Non è così semplice».
E il suo rapporto con la moglie? Un altro focus del film...
«Lynne è essenziale per la crescita del politico Cheney. Lui del resto adorava essere adorato, quando era giovane, ma anche dopo: al giovane Cheney sarebbe piaciuto essere eroe di fotoromanzi. Subiva il fascino per gli uomini duri della frontiera, i pionieri, i maschi che combattevano la battaglia giusta. Senza Lynne non sarebbe mai diventato vice presidente».
Lo ha mai incontrato?
«No, ma sono stato messo in contatto con lui da un suo amico, che gli ha consegnato un paio di mie domande. Di sicuro non avrei potuto chiamarlo per telefono, non mi avrebbe parlato. Poi mi ha fatto sapere che mi avrebbe ricevuto per due ore, e io ero convinto di potergli tener testa, ma gli avvocati del film mi hanno fermato dicendomi che non dovevo incontrarlo, perché avevano paura che per quanto Cheney non potesse fermare il film avrebbe forse potuto posticipare la sua uscita. Insomma, non ho ancora incontrato Cheney. Ma il dialogo con lui ce l’ho ancora tutto in testa».