Più lo osservo e più è chiaro che a 61 anni El Chapo non si sente un uomo sconfitto. È abituato alle rivincite spettacolari (al suo attivo ben due evasioni "storiche" da carceri di massima sicurezza, nel 2001 e nel 2015). Sa attendere.
In quest’udienza si affrontano due pluri-assassini, due narco-terroristi miliardari: il patrimonio del messicano fu stimato da Forbes a 4 miliardi di dollari, quello del colombiano appena la metà. È un mondo che per i suoi estremi di ferocia bestiale e di opulenza dà le vertigini, affascina, seduce l’immaginazione visto l’immenso successo di libri, film, serie televisive (la nuova Narcos di Netflix, ha voluto far coincidere l’uscita proprio con questo maxiprocesso). È un mondo che alla maggioranza di noi sembra lontanissimo dalla vita quotidiana. A me sono bastati 35 minuti di metrò per fare un viaggio dentro un universo così remoto e spaventoso: il processo si svolge nel tribunale federale dell’Eastern District of New York, 225 Cadman Plaza East, a Brooklyn. Fermata High Street sulle linee A e C. È una delle corti più importanti degli Stati Uniti, vi si sono svolti processi alla mafia e al terrorismo. Nessuno ricorda misure di sicurezza come queste.
I precedenti le giustificano: è stato assassinato il giudice messicano che nel 2016 concesse l’estradizione di Joaquín Guzmán Loera detto "El Chapo" ("il corto, il tozzo"). È stato ucciso anche il padre di due collaboratori di giustizia di Chicago che avevano accettato di testimoniare contro di lui. Per El Chapo il carcere più impenetrabile che sia stato trovato è dall’altra parte del fiume East River: il cosiddetto 10 South, ala di massima sicurezza del Manhattan Metropolitan Correction Center. 23 ore su 24 di isolamento totale, un’ora di colloquio coi legali spiato dalla polizia («un abuso evidente contro i diritti dell’imputato», protesta la difesa). Il problema logistico è enorme: ogni volta che viene trasferito El Chapo dal supercarcere di Manhattan al tribunale viene chiuso al traffico il ponte di Brooklyn, per riservarlo a una colonna blindata, più ambulanza e Swat Team (teste di cuoio), con sorvolo di elicotteri durante il tragitto. Per evitare di ripeterlo due volte al giorno dal lunedì al giovedì, per i giorni di udienza si è costruita una cella di massima sicurezza a Brooklyn. Leggenda vuole che sia in una "undisclosed location", zero dettagli topografici. Anche i giurati, le cui identità vengono tenute segrete, sono scortati giorno e notte. In quanto a noi giornalisti (pochi e per lo più latinoamericani), dopo i controlli ad personam sulla nostra storia per ottenere la tessera di accredito, ci sono le barriere: tanti cani poliziotto anti-esplosivo, un metal detector e un apparecchio ai raggi X da attraversare scalzi, all’ingresso del tribunale. La stessa barriera doppia ci attende all’ottavo piano, aula 8D South, dove presiede il giudice Brian M.Cogan. Cellulari, tablet, computer ci vengono spenti e sequestrati all’ingresso. In aula l’isolamento è totale. Ogni volta che la seduta viene interrotta per richieste speciali o controversie tra accusa e difesa, e il giudice fa avvicinare a sé le due squadre, si accende negli amplificatori il brusìo elettronico per coprire le loro voci. La procura federale schiera cinque donne e quattro uomini; la squadra della difesa quattro uomini e tre donne.
L’aula è stata riconfigurata riducendo al minimo lo spazio per il pubblico. Solo sei banchi. E i primi due sono vietati, campeggia la scritta "reserved".
Lì siedono osservatori di altre agenzie federali, Fbi, Cia, Dipartimento di Stato, soprattutto la Drugs Enforcement Agency (Dea) che ha versato il più alto tributo di sangue tra i suoi uomini da quando Richard Nixon lanciò "The War on Drugs", anno 1971. Con molta discrezione ci sono anche alti diplomatici messicani e colombiani ammessi come osservatori.
Dopo quattro settimane dall’inizio del processo – ma solo dieci sedute effettive, per le molte interruzioni – va in scena una superstar, un teste dell’accusa che da solo vale un romanzo (ed è in effetti già stato messa in scena in molti film sui narcos). Il mostro: in tanti sensi, a cominciare dall’apparenza. Juan Carlos Ramírez Abadía (detto "Chupeta"), 55 anni, colombiano.
Ex boss del cartello di Cali, nonché socio d’affari del Chapo per oltre un ventennio. Reduce da plastiche facciali che lo hanno orribilmente deformato: il volto raccapricciante metà gatto albino, metà maschera di Fantomas; le mani sempre avvolte in lunghi guanti neri.
Freddo, rigoroso, implacabile, ha una memoria eccezionale per i dettagli contabili della joint venture che fruttò miliardi insieme al Chapo. «Almeno 200 tonnellate di cocaina al prezzo fra i 20 e i 30.000 dollari il chilo», ricorda di avere introdotto negli Stati Uniti, solo nel periodo di collaborazione col cartello di Sinaloa diretto dal Chapo.
Malgrado le continue interruzioni dovute agli interpreti dallo spagnolo, la sua testimonianza ha la precisione di un corso alla Harvard Business School. Parla di «business model» per illustrare l’azienda-narcos nei suoi equilibri finanziari; definisce «infrastruttura» quella che s’inventò per dare economie di scala grandiose al traffico.
«Costruimmo una piattaforma logistica con le nostre flotte aeree e le nostre piste private di atterraggio; con finti pescherecci d’alto mare e motoscafi ad alta velocità; Tir e treni merci; alla fine avevo perfino venduto al cartello di Sinaloa una decina di sottomarini, ciascuno poteva trasportare 5 tonnellate di cocaina sfuggendo alla rilevazione della guardia costiera americana o della US Air Force».
Ricorda come ai tempi del boom nei loro traffici «la quantità di aerei che decollavano dalla Colombia al Messico era tale che un alto dirigente dell’esercito messicano la paragonò a un’invasione bellica». La testimonianza di Abadía-Chupeta è fondamentale soprattutto per una ricostruzione storica: la transizione del potere nell’universo dei narcos, il passaggio che lui gestì da protagonista dal 2000 al 2005, quando i cartelli della droga colombiana accettarono di diventare i fornitori della materia prima, relegandosi in un ruolo lucroso ma subalterno. Mentre i messicani che erano stati dei "semplici" gestori del trasporto oltre la frontiera Usa, s’impadronirono della rete distributiva finale da Los Angeles a New York, divennero così i veri padroni del gioco, i boss dei boss.
Anche se perennemente in guerra fra loro, col cartello di Sinaloa (El Chapo) protagonista di migliaia di esecuzioni per prevalere sui rivali.
In un processo maratona, destinato a durare fino a febbraio, la difesa del Chapo ha già sfoderato uno dei suoi argomenti. «L’imputato si dichiara innocente» delle accuse di stragi multiple, traffico di cocaina su vasta scala, e un’altra ventina d’incriminazioni, in quanto si considera banale esecutore, semplice ingranaggio di un’organizzazione, i cui veri capi vanno cercati molto più in alto.
«Volete coprire due presidenti del Messico», è l’accusa durissima lanciata dai legali del Chapo.
Contestano al giudice federale Cogan di avere «secretato» documenti e testimonianze sulla corruzione dei politici fino ai massimi vertici dello Stato messicano. Gettano un’ombra sul misterioso calendario dell’estradizione: El Chapo fu consegnato agli americani esattamente 24 ore prima dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, in un contesto di grave tensione tra i governi (Muro di confine, trattato Nafta). Quale fu esattamente la contropartita? Buttarla in politica può essere fumo negli occhi. La squadra della difesa dà i brividi: da Jeffrey Lichtman a William Purpura ad Angel Balarezo, la guidano tre celebrity specializzate nell’assistere i boss della grande criminalità organizzata, da John Gotti Junior (Cosa Nostra) ai capi delle gang ispaniche di Washington.
L’unica debolezza del Chapo, forse, la s’intuisce dalla presenza in aula della quarta moglie, l’esuberante attricetta Emma Coronel Aispuro. Come altri superboss, lui ha un’attrazione irresistibile verso il sesso, e il mondo dello spettacolo. A favorire la sua terza ed ultima cattura avrebbe contribuito, pare, l’incauta intervista concessa a Sean Penn e Kate del Castillo per Rolling Stone nel 2015. Siamo solo all’inizio, El Chapo sussurra i suoi commenti sulla testimonianza dell’ex socio colombiano nell’orecchio di uno dei suoi avvocati; o li scribacchia su un foglietto. Alle spalle del giudice Cogan c’è la bandiera a stelle e strisce e il grande medaglione con l’aquila imperiale degli Stati Uniti.
Simboli di uno stato di diritto deciso a prevalere. Forse anche della ragion di Stato.