il Giornale, 4 dicembre 2018
Lo sbarco sulla Luna raccontato da Oriana Fallaci
(dal libro “La luna di Oriana”, appena pubblicato da Rizzoli, che raccoglie articoli di Oriana Fallaci sulla Luna e le missioni spaziali)
Armstrong dovette aprirlo, allungando la mano sinistra, proprio mentre parlava con Houston perché in quel preciso momento gli schermi si illuminarono e vedemmo ciò che vedeste anche voi, ciò che vide tutto il mondo, vedemmo la zampa del LM, la parte inferiore del LM, e l’orizzonte della Luna. E poi vedemmo quel piede, quel grande piede che scendeva a cercare il piolo della scaletta, era un piede sinistro e scendeva così lento, così cauto, ma allo stesso tempo così deciso. E dal Centro Controllo Bruce McCandless gridò: «Man! Riceviamo una immagine sulla TV! Oh, man!». E Aldrin, tutto contento, rispose: «Bella immagine, eh?», e Bruce McCandless aggiunse: «Neil, Neil! Ti vediamo scendere per la scala a pioli!». Erano le nove e cinquantasei, ora di Houston. E nell’auditorium tutti ripetevano con Bruce McCandless: «Man! Oh, man!». Che vuol dire uomo. Uomo, non Dio. E mentre invocavano l’uomo invece di Dio, Armstrong risalì di due o tre scalini, a provare se ciò costava fatica, ma non gli costava nessuna fatica e riprese a scendere cauto, deciso. E presto lo vedemmo tutto intero, prima la tuta bianca e poi il casco: fu all’ultimo piolo dove ebbe un momento di esitazione perché l’ultimo piolo è assai alto, per scendere sopra il piattello della zampa del LM bisogna fare quasi un saltino, e sembrò quasi che gli mancasse il coraggio di fare il saltino, il coraggio di uscire dall’acqua, lasciare l’ultima onda e gettarsi sopra la riva. Ma poi il coraggio gli venne, e si buttò giù e fu dentro il piattello. E le sue prime parole sulla Luna furono queste: «Sono ai piedi della scaletta, I am at the foot of the ladder... i piedi del LM sono affondati nella superficie per circa uno, due pollici... la superficie tuttavia appare molto, molto granulosa quando ti avvicini. È come polvere. Fine, molto fine. Ora esco dal piattello del LM».
È questo che disse. La frase su cui fecero i titoli sui giornali la disse dopo. La frase che tutti avevan tentato di indovinare, cosa dirà Neil al momento di fare il primo passo sopra la Luna, dirà fantastico, dirà perbacco ragazzi, e lo avevano tormentato tanto, povero Armstrong, lo avevano esasperato al punto che per non deludere l’attesa lui ci aveva pensato, alla frase, e l’aveva trovata, e l’aveva confidata a una sola persona: sua madre. L’ha raccontato lei stessa: «Venne a domandarmi cosa ne pensavo, sembrava così preoccupato, e io gli dissi che mi sembrava un bel discorso. Allora mi fece giurare che non l’avrei detto a nessuno». Non era un gran bel discorso, ammettiamolo. Era una frase retorica, e suonava un pochino falsa, un pochino buffa, dentro il suo gergo tecnico da pilota. Oh, quasi ne fosse cosciente, Armstrong la pronunciò molto in fretta, in un sussurro carico di imbarazzo: «That’s one small step for man, one giant leap for mankind. Questo è un piccolo passo per l’uomo, è un salto gigantesco per l’umanità». Però si riprese immediatamente, tornò immediatamente se stesso, e ciò accadde quando staccò le mani dal LM, e andò avanti, e incominciò a spiegare quel che vedeva: «La superficie è fine e polverosa, posso sollevarla con la punta delle mie scarpe: aderisce alla suola e ai lati delle mie scarpe in strati simili a polvere di carbone. Affondo solo in una piccola frazione di pollice, forse l’ottava parte di un pollice. Ma posso vedere le impronte delle mie scarpe e i miei passi sopra la sabbia».
E poi accadde qualcosa di molto imprevisto, di molto fantastico: si mise a correre, proprio a correre. Si allontanava come spinto dal vento e come spinto dal vento tornava: improvviso, leggero. E Bruce McCandless esclamò: «Neil! Neil!».
Non se l’aspettava nessuno. Sulla Terra è così difficile muoversi con quella tuta addosso: pesa ottanta chili ed è più rigida di uno scafandro. Naturalmente alla NASA avevano calcolato che sulla Luna essa avrebbe pesato neanche tredici chili e mezzo, cioè un sesto, però anche il corpo avrebbe pesato un sesto, e così, avevan concluso, il rapporto sarebbe rimasto identico. E in tal conclusione ci avevan descritto i movimenti di Armstrong sulla Luna come visti al rallentatore: ecco invece che Armstrong correva. Balzi e lanci che avevan qualcosa di assurdo, ricordavano Charlot nelle sue farse mute, per qualche secondo su al Centro Controllo temettero quasi che Neil fosse impazzito e quando capirono d’essersi sbagliati, d’aver mal calcolato l’effetto di un sesto di gravità, cominciarono a ridere divertiti, liberati, tanto più che la voce di Armstrong era davvero tranquilla mentre diceva: «Al contrario di ciò che ci aspettavamo sembra non esserci difficoltà alcuna a muoverci qui. Forse è perfino più semplice di quanto lo fosse nei simulatori, non dà proprio nessuna noia camminare in un sesto di gravità». E poi: «Il motore di discesa non ha lasciato nessun cratere. Di nessuna forma, di nessuna ampiezza. Il suolo sotto il motore è solo un poco più chiaro per lo spazio di un piede. Siamo in un posto molto piano. Posso vedere alcune tracce di raggi che emanano dal motore di discesa, ma assolutamente insignificanti. OK, Buzz, siamo pronti per portare giù la macchina fotografica».
«Pronti» rispose Aldrin. «Sembra che tutto risulti facile e uniforme, Neil».
«Abbastanza, Buzz. Ma è molto buio, qui, quando si è nell’ombra e mi è difficile vedere se cammino bene. Mi farò strada verso la luce del Sole stando attento a non guardare direttamente nel Sole».
Aldrin gli calò la macchina fotografica, attraverso la corda.
Lui la prese e continuò a descrivere con la precisione di un cronista radiofonico.
«Ora guardo il LM stando direttamente nell’ombra e vedo Buzz nello sportello. Evitando il Sole vedo tutto molto bene. La luce è sufficientemente chiara, si riflette nel LM, e ogni immagine è nitida. Ora mi muovo e prendo le prime fotografie. OK, ora mi accingo a prendere un campione del suolo».
Volò verso il pacco degli utensili, ne estrasse il bussolottino per raccogliere il suolo destinato ai geologi. Allungò il manico e chinandosi un poco si accinse a tuffarlo nella superficie sabbiosa.
«Interessante! Molto interessante! È superficie così morbida eppure, qua e là, usando l’utensile per raccogliere il campione del suolo, trovo una superficie durissima. Sembra materiale identico a quello sabbioso, eppure è molto coesivo. Ora provo a raccattare anche un sasso. Ecco un paio di sassi».
«A giudicare di qui, sembrano belli anche i sassi, Neil» disse Aldrin.
«Questo posto ha una sua bellezza, Buzz. Assomiglia molto al deserto degli Stati Uniti. È deserto, sì, ma è molto bello. Houston, dovete sapere che molte rocce, qui, le rocce dure, sembrano vescicolari. (Piccole rocce rotonde, di origine vulcanica. Chiamate così perché presentano cavità provocate dall’esplosione interna dei gas.) Di origine vulcanica, penso. E ce n’è una che sembra una specie di monocristallo».
Nel giro di venti minuti aveva acquistato una straordinaria confidenza in se stesso, si era completamente assuefatto alla Luna. E noi con lui. Niente più tremiti ormai, niente più paura: a vederlo così tranquillo, quasi dimenticavi che lo spettacolo paradossale si svolgeva lassù, ti sembrava d’essere al cinematografo a guardare un film di fantascienza, e a poco a poco anche il film non ti stupiva più, anzi diventava credibile, normale, ovvio. Qualcuno, accanto a me, sbadigliò. Qualche altro disse che gli era venuta voglia di andare a bere un caffè: tanto, cosa si perdeva? Be’, scende Aldrin, gli venne risposto. E lui alzò le spalle, se ne andò a bere il caffè.
Aldrin, lo capivi dal fatto che non si muovesse dalla passerella, fremeva di impazienza. Dopo tutto avrebbe dovuto essere lui il primo uomo a camminare sulla Luna, mica Neil Armstrong. Secondo i piani della NASA infatti il privilegio spettava al pilota del LM, non al comandante della missione, ed era stato Armstrong a puntare i piedi, a pretendere di mutare le precedenze, sicché Aldrin aveva dovuto chinare il capo, accettare. Per alcuni mesi ciò aveva causato tra i due astronauti un’ostilità sorda e sebbene negli ultimi tempi essa si fosse un poco allentata, neanche alla vigilia della partenza era scomparsa del tutto. E chi li conosce comprese che in quel momento, sulla Luna, essa rifioriva.
«Neil, sei pronto a farmi uscire?».
«Sì, ma aspetta un secondo. Prima faccio scorrere la corda. OK?».
«OK. L’hai scorsa, Neil. Ora sei pronto a farmi scendere?».
«Sì, un attimo...».
Ce li faranno vedere molto amici quando, insieme, li porteranno in giro per questa Terra. Ce li racconteranno fratelli, possono non esser fratelli due uomini che sono stati insieme sulla Luna? Certo. Loro due ad esempio non lo sono per niente. Toccava ad Aldrin, che era ai comandi del LM, e non ad Armstrong, dire: «Qui, base della Tranquillità; l’Aquila ha atterrato», e sulla Luna toccavano ad Aldrin tante altre piccole o meno piccole cose che invece Neil Armstrong volle fare da sé. Vedi, nemmeno a contatto con l’infinito un uomo diventa grande se in lui non v’è grandezza. Andar sulla Luna non ci rende certo migliori.