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 2018  dicembre 04 Martedì calendario

La giustizia è solo per ricchi

Articolo 24, comma primo, della Costituzione italiana, la più bella del mondo: «Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi». Sacrosante parole. Peccato che in pratica non proprio tutti riescano a farsi valere. È una questione di soldi, di vil denaro. Perché la prima cosa da fare, quando si decide di tutelarsi e trascinare qualcuno in un’aula di giustizia, è mettere mano al portafogli. Prima ancora di vedere in faccia un giudice al quale esporre le proprie buone ragioni, bisogna aver pagato tasse, bolli, contributi. Anche se chi apre una causa ha subito un torto colossale, per fare valere i propri diritti costui dev’essere un tipo previdente che ha tenuto da parte una buona riserva di risparmi.
La giustizia è una cosa da ricchi? Non del tutto. Ma almeno un 10mila euro pronta cassa bisogna averli: per avviare un procedimento possono bastare. Il conto finale resterà un mistero doloroso fino all’ultimo, dipenderà da troppe incognite. Ma la giustizia (o ingiustizia?) chiede subito una serie di anticipi che non dipendono dal reddito di chi ricorre. Le tasse chieste dallo Stato sull’avvio dei procedimenti civili non si pagano come per esempio l’Irpef, cioè in proporzione ai guadagni, ma in base al valore della disputa giudiziaria. Più denaro o beni immobili si conta di ottenere, più si paga, indipendentemente dal fatto di essere poveri o ricchi. Nel linguaggio giuridico, si dice che le tasse si versano sull’utilità attesa o sulla ricchezza eventuale. È come se lo Stato offrisse ai cittadini un servizio come arbitro delle liti e si facesse pagare guardando non al conto in banca dei contendenti, quanto piuttosto all’oggetto che viene disputato e sul quale bisogna decidere. E gli oneri iniziali sono a carico di chi decide di aprire il contenzioso.
Prendiamo il caso di un proprietario immobiliare che debba sfrattare un inquilino in arretrato con l’affitto oltre i termini stabiliti dal contratto di locazione, e l’occupante della casa non voglia sentire ragione. «Mi faccia causa», ripeterà come un ritornello chi rifiuta di giungere a un accordo. Il proprietario andrà da un avvocato e poi da un giudice, certo di riuscire a riscuotere quanto pattuito. Per il momento, tuttavia, le sue finanze già assottigliate dalle mensilità non incassate subiranno un’ulteriore limatura. 
GIUNGLA DI CONTRIBUTI
Primo esborso: il contributo unificato, cioè una tassa fissata dal ministero della Giustizia in una misura che tiene conto del valore della controversia e del grado di giudizio. Ricorrere in Cassazione – per dire – costa il doppio che andare dal giudice di primo grado. Se poi si trattasse di un ricorso amministrativo, tutte le cifre indicate nelle tabelle ministeriali per la giustizia civile vanno raddoppiate. Si parte da un minimo di 43 euro per un primo grado dal valore inferiore a 1.100 euro, per arrivare fino a 3.372 euro a carico di chi va in Cassazione per valori superiori a 520mila euro. Le tabelle sono una giungla in cui è difficile orientarsi, tra gradi di giudizio, ambiti giudiziari (fallimenti, separazioni, controversie di lavoro, infortuni, procedure, contenzioso tributario, e via dicendo), eccezioni, esenzioni.
La seconda voce è legata alla prima ed è molto delicata. Bisogna nominare e pagare un perito che esegua una stima del bene conteso. Nel caso di uno sfratto, alla morosità quasi sempre si aggiunge una richiesta di danni che vanno quantificati da un esperto: sul valore così determinato sarà calcolato il contributo unificato. La perizia è necessaria quasi sempre, e non soltanto perché il giudice apprezzerà una stima redatta da un professionista più delle carte «fai da te» prodotte dalle parti. Poniamo che la causa riguardi il risarcimento di un infortunio sul lavoro o di un’invalidità provocata da un incidente stradale: in questo caso è necessaria una perizia medico legale che può costare anche 10mila euro più Iva (22 per cento). Il medico legale deve intervenire, oltre che nelle cause di responsabilità civile, anche nei casi di responsabilità professionale, infortuni, malattie. E probabilmente, nel corso del giudizio, il tribunale nominerà un suo perito incaricato di redigere una Ctu, ovvero una consulenza tecnica d’ufficio, e anche questa dovrà essere pagata.
MARCA MAGISTRATI
Bisogna poi acquistare un bollo forfettario di 27 euro che gli avvocati chiamano «marca magistrati»: sono previste eccezioni in cui scatta un’esenzione, ma sono eventualità rare. Il passo successivo è quello di notificare l’avvio della procedura alle controparti. Qui la casistica è sconfinata: si può ricorrere alla pec, la posta elettronica certificata, ma l’inquilino potrebbe non esserne dotato. L’immobile potrebbe trovarsi in un altro distretto giudiziario o all’estero; potrebbe presentarsi la necessità di notificare gli atti in un’altra lingua ricorrendo a una traduzione giurata; il contratto d’affitto potrebbe essere intestato a più persone con residenze diverse. Se si avvia una procedura esecutiva con l’intervento di un ufficiale giudiziario, pure lui ha un suo costo. Per una sola notifica si può arrivare a spendere anche 1.000 euro. Chi pensasse di cavarsela con una raccomandata con ricevuta di ritorno è un illuso.
Non è finita. La lista delle spese iniziali comprenderà anche una serie di voci più banali ma non meno costose: fotocopie, trasferte, visure al catasto o alla Camera di commercio, eventuale ricorso a un’agenzia di investigazione o a un consulente immobiliare. La richiesta di un qualsiasi atto giudiziario alle cancellerie ha un costo che dipende da parecchie variabili: quante pagine, se la copia richiesta è cartacea o digitale, se gli atti sono del tribunale o del giudice di pace, se la copia dev’essere autenticata, se va prodotta con urgenza. Per i diritti di copia di un atto del tribunale di 10 pagine, stampato su carta, autenticato e urgente si spendono 40,74 euro. Se le pagine fossero 100, si sale a 87,21 euro.
Discorso a parte riguarda l’avvocato. Dall’estate 2017 non sono più in vigore i minimi tabellari. La contrattazione tra legale e assistito è libera; l’avvocato tuttavia è obbligato a fornire un preventivo del proprio onorario e molto spesso chiede un anticipo che va ad appesantire l’esborso iniziale del ricorrente. Anche il legale dovrà sostenere varie spese nel corso del contenzioso: a seconda degli accordi, potrebbero essere rimborsate in base ai giustificativi oppure conteggiate a forfait, il 15 per cento del compenso totale. Al quale va aggiunta l’Iva al 22 per cento e il contributo previdenziale destinato alla Cassa forense, pari al 4 per cento.
AL TAR SI RADDOPPIA
Nel civile è il cittadino che promuove l’azione giudiziaria. Nell’amministrativo è tutto raddoppiato: per esempio, la spesa iniziale di base per ricorrere contro la graduatoria di un concorso è di 650 euro più le notifiche. Costi elevati anche nel penale, se non altro perché quasi sempre i periti sono più d’uno. E si paga anche la mediazione, resa obbligatoria da una legge del 2010 per una serie di controversie tra le quali diritti reali (proprietà, usufrutto, eccetera), locazione, eredità, liti di condominio, contratti assicurativi bancari e finanziari, risarcimento danni per diffamazione a mezzo stampa, responsabilità medico sanitaria, incidenti stradali. I costi della mediazione sono scaglionati a seconda che ci si trovi nella fase dell’attivazione, della negoziazione o della conciliazione.
Riepilogando, fra tasse, bolli, periti, anticipi non è azzardato calcolare che per sfrattare un inquilino moroso il proprietario dell’immobile occupato abusivamente debba immediatamente spendere tra i 5.000 e i 10.000 euro soltanto nella fase iniziale. Poi dovrà implorare Dike, la dea della giustizia, per avere un giudizio rapido. Perché più si protrae il giudizio, più il computo finale s’ingigantisce. I costi della giustizia sono un’ingiustizia, un formidabile deterrente che scoraggia molte persone dal bussare alle porte di un tribunale per fare valere i propri diritti.