Libero, 4 dicembre 2018
Marte visto da Oriana Fallaci
(Il testo è parte del capitolo su Marte tratto dal libro “La luna di Oriana”, appena pubblicato da Rizzoli, che raccoglie articoli di Oriana Fallaci su la Luna e le missioni spaziali)
Gli uomini di scienza ci pensavano da tempo, naturalmente. Da sempre. Ma fu solo quel giorno dopo la Luna, quando Armstrong e Aldrin e Collins erano tornati ormai sulla Terra, che qualcuno tradusse il sogno in un annuncio preciso. Era costui un omino dal viso aguzzo, il gran naso magro, e due lenti spesse sugli occhi miopi: George Mueller, capo della Nasa. Sedeva con gli altri a un tavolo lungo, sul palco dell’auditorio di Houston, e sembrava che non avesse nulla da dire. Il mento appoggiato a una mano, lo sguardo assente, non piegava nemmeno le labbra in un sorriso. D’un tratto, si scosse. Portò il microfono verso di sé, si raschiò la gola e disse così: «Ora ci aspetta quella che indubbiamente è la più grave decisione da prendere nella storia del nostro pianeta. Quattro miliardi di anni fa si formò la Terra. Quattrocento milioni di anni fa la vita si mosse sulla Terra. Quattro milioni di anni fa, l’uomo apparve sulla Terra. Cento anni fa incominciò la rivoluzione tecnologica che ci avrebbe condotto a oggi. Ciascuno di questi episodi fu importantissimo, eppure in nessuno di essi l’uomo prese la decisione cosciente di seguire un cammino che avrebbe cambiato il futuro dell’umanità. Oggi abbiamo tale opportunità, tale sfida. Perché oggi, 24 luglio, alle 11,49 ora di Houston, nel mezzo dell’Oceano Pacifico, abbiamo dimostrato che l’uomo può uscire dai limiti del pianeta su cui è così a lungo vissuto. Torneremo alla Luna in novembre, e l’anno prossimo a intervalli regolari. Ma i viaggi alla Luna non sono che un primo passo, resta da decidere cosa fare dopo. Quindi, o noi continueremo a esplorare gli altri pianeti o noi negheremo il futuro. Per me la scelta è chiara: il nuovo passo va fatto. Se esitassimo a compiere l’esplorazione di altri pianeti, se ci ritirassimo in preda alla paura, se sostituissimo l’avventura spirituale con un temporaneo benessere materiale, allora l’uomo rinuncerebbe al suo destino. Tutto ciò che egli ha fatto finora andrebbe perduto e distrutto nei confini del nostro pianeta. Così è giunto il momento di prendere la decisione, e ritrovare lo spirito dei nostri padri, e andare avanti. L’organizzazione che ha portato gli uomini sulla Luna è pronta per il nuovo passo, la sapienza che abbiamo è sufficiente a compierlo, le risorse di cui disponiamo sono adeguate. Bisogna recarsi sugli altri pianeti. Buongiorno e grazie».
L’ANNUNCIO DI NIXON
Ventiquattr’ore più tardi i giornali uscivano col titolo «Mueller sollecita la spedizione a Marte». Neanche due mesi dopo, Nixon ne dava l’annuncio ufficiale: «A Marte entro il Duemila». E sebbene manchino appena trent’anni al Duemila, quella data è eccessivamente prudente anzi imprecisa: su Marte ci andremo assai prima. Negli anni Ottanta. E assai prima voleremo a Giove, a Saturno, a Urano, a Nettuno, a Plutone: in quel fantastico viaggio che si chiama Grand Tour. Senza uomini, questo, ma con macchine tanto perfette da sedurre chi le ha inventate. Astronavi capaci di spingersi al limite del nostro sistema solare e anche oltre. Verso altri soli, negli oceani sterminati della nostra galassia. Con lo sbarco sulla Luna le porte del cielo si sono spalancate e, non più prigionieri della cappa d’azzurro sotto cui fummo rinchiusi per miliardi di anni, possiamo finalmente tentar di scoprire il mistero che cela quasi tutti i perché. Come nacque il nostro sistema solare e perché? Come nacque la vita e perché? Siamo soli nell’universo o vi sono altre creature intelligenti e perché? La vita è soltanto ciò che noi siamo oppure noi siamo un modello di infinite possibilità? In passato, a certe domande si rispondeva con la fantascienza, certe cose le leggevamo soltanto sui libri nati dall’immaginazione. Oggi a certe domande risponde la scienza, certe cose le leggiamo sui giornali sotto forma di cronaca. Di qui il reportage che vi do: io stessa incredula, io stessa sorpresa. Cinque pianeti in fila come palle da biliardo. Il nostro sistema solare si compone di nove pianeti, così disposti nella distanza dal Sole: Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano, Nettuno, Plutone. Ogni centosettantanove anni questi ultimi cinque si trovano allineati in modo tale che un razzo lanciato dalla Terra in direzione di Giove se li trova in fila come cinque palline da biliardo. E quindi può passargli comodamente vicino, fotografarli, studiarli uno dopo l’altro, senza andarli a cercare a zonzo per l’universo. Non a caso lo scienziato americano Homer Stewart ha definito lo straordinario fenomeno «biliardo interplanetario». Però spieghiamoci meglio. Non è che i cinque pianeti si mettono in fila su una linea diretta: è che il razzo li incontra in fila su una linea diretta mentre percorre la sua traiettoria, cioè via via che arriva. Non solo: tale incontro è reso possibile dal fatto che, quando il razzo passa accanto a un pianeta, ne riceve una spinta che gli infonde la velocità necessaria a raggiungere il pianeta seguente. Da Giove a Saturno, da Saturno a Urano, da Urano a Nettuno, da Nettuno a Plutone. Pensa a una palla lungo una strada dove stanno cinque calciatori: quando la palla arriva ormai stanca al primo calciatore, costui le dà una pedata che la spedisce al secondo calciatore il quale a sua volta la spedisce al terzo eccetera. Ciò è molto importante perché, senza quelle pedate, il razzo non ce la farebbe mai a mantenere la velocità necessaria per arrivare in tempo ragionevole fino all’ultimo pianeta. Nella sua orbita più breve, Plutone dista dalla Terra 3230 milioni di chilometri: per raggiungerlo con un volo diretto ci vorrebbero quarantun anni. Per raggiunger Nettuno con un volo diretto ci vorrebbero oltre diciotto anni.
MISTERIOSO SATURNO
Usando il sistema descritto, invece, i cinque pianeti possono esser visitati in un periodo di tredici anni. La ragione è evidente. Come un uomo o un cavallo, un razzo viaggia più lentamente se è caricato d’un peso. E un razzo che va a studiare i pianeti dev’essere caricato d’un peso: cioè gli strumenti che si porta a bordo. Almeno cinque o seicento chili di roba. L’ultima volta che Giove, Saturno, Urano, Nettuno, Plutone si allinearono nel biliardo interplanetario fu nel 1797. In Europa era scoppiata la Rivoluzione francese, Napoleone non era ancora imperatore, in Italia si stava fondando la Repubblica Cisalpina; in America avevano vinto la guerra di indipendenza e Jefferson era vicepresidente degli Stati Uniti; per spostarsi da un luogo all’altro si usava la carrozza e se tu avessi previsto una cosa chiamata treno o aeroplano ti avrebbero chiuso in manicomio: l’idea di volare apparteneva alla leggenda di Icaro, ai sogni pazzi di Leonardo da Vinci. Ed eccoci al dunque: 1797 più 179 fa 1976. La prossima volta che i cinque pianeti torneranno ad allinearsi sarà nel 1976, per un periodo che durerà almeno otto anni. Così conclusero, nel giugno scorso, anche i ventitré scienziati che a Washington proposero il Grand Tour: cioè il viaggio di un unico razzo a Giove, Saturno, Urano, Nettuno, Plutone. Tra i ventitré c’era James van Allen, il fisico che scoprì le cinture radioattive cui è stato imposto il nome di van Allen, e il rapporto, scritto da lui e dal professor James Lang, diceva: «Un’occasione simile è un dono di Dio, perderla sarebbe criminale. Raccomandiamo perciò la costruzione immediata di un’astronave che pesi non più di seicento chili e abbia a bordo strumenti capaci di vivere almeno tredici anni, cioè quanto durerà il Grand Tour. Strumenti per fotografare e trasmettere a terra con la tv, poi per misurar l’atmosfera, la temperatura, i raggi ultravioletti, le onde infrarosse, le componenti chimiche di ogni pianeta. Il tutto guidato da un cervello elettronico abbastanza sofisticato da aggiustarsi da sé in caso di guasto e imporre da solo i comandi che da terra impiegherebbero tempo eccessivo». Per il lancio Lang suggeriva un razzo che fosse la combinazione del Titan con il Centauro e per il viaggio suggeriva tre scelte: Terra-Giove-Saturno-Plutone, Terra-Giove-Urano-Nettuno, Terra-Giove-Urano-Plutone. «Più che tre scelte, però, suggerisco tre lanci, onde assicurarci il successo di almeno uno dei tre. E direi di scartare Saturno da un lancio poiché ritengo che gli anelli di Saturno siano composti di una materia solida che può danneggiare il veicolo». E ora vediamo perché non fare il Grand Tour sarebbe criminale. Se si esclude Mercurio, il quale è troppo vicino al Sole e ben difficilmente può esser orbitato con un razzo che non si cuocia in pochi secondi, i sei pianeti esterni alla Terra sono proprio quelli di cui si sa meno. In alcuni casi, anzi, nulla. Si sa poco anche di Venere e non abbastanza di Marte, è vero, però Marte ci è già familiare e Venere ci è relativamente vicino: sia americani che russi ci mandano sonde da anni e le difficoltà che presenta non sono insormontabili. Per gli altri cinque pianeti invece sì: a causa della lontananza. Giove, il meno lontano, è a 600 milioni di chilometri dalla Terra: la prima sonda che lo orbiterà, nel 1973, impiegherà due anni a raggiungerlo. Di esso si conoscono, per ora, particolari più che insufficienti: è enorme, il più grande di tutti i pianeti; non è allo stato solido ma a quello gassoso. Almeno in superficie. È composto in massima parte di ammoniaca ma anche di azoto, idrogeno, carbonio, gli elementi cioè della Terra. Possiede dodici satelliti, quattro dei quali già scoperti da Galileo, e chiamati «pianeti medicei». Ed è tutto. Saturno è un mistero. Di esso si sa soltanto che è circondato da anelli che alcuni scienziati, come Lang, sospettano fatti di pietra, altri di ghiaccio, altri ancora di gas. Secondo i calcoli, anche Saturno dovrebbe essere allo stato gassoso. Ma ci è ignota perfino la sua temperatura: dalla sua orbita si può appena dedurre che ha un certo campo gravitazionale che corrisponde a un certo volume. Di Urano poco, di Nettuno quasi zero. Di Plutone, zero su zero. Venne scoperto, nel 1930, su calcoli matematici compiuti quindici anni prima da Lowell. Lavorando sui dati di una perturbazione secondaria di Urano, a forza di moltiplicare e dividere, concluse che essa era causata dall’esistenza di un altro pianeta. Era Plutone, identificato poi in un puntino incerto su una lastra fotografica. Quasi un fantasma.
LO STUDIO DEI PIANETI
Un’opinione diffusa tra gli scienziati sostiene che tutti i pianeti del nostro sistema solare si formarono nel medesimo tempo, e con la stessa materia originale. E alcuni pongono anche la data citata da Mueller: quattro miliardi (o quattro miliardi e mezzo) di anni fa. Aggiungono che la durata del nostro sistema solare non ha ancora raggiunto l’età della menopausa: gli restano almeno sei miliardi di anni da vivere. Simili calcoli, tuttavia, sono basati su teorie incontrollabili e, soprattutto, sullo studio della Terra, che è un pianeta sottoposto a mutamenti continui. Per sapere come nascemmo, e con cosa ci formammo, e quando, e perché, bisogna studiare anche gli altri pianeti. A parte la curiosità principale, anzi la più umana: quella di scoprire se sugli altri pianeti c’è vita. E l’unico mezzo che oggi abbiamo per farlo è il Grand Tour. Il quale avverrà in due missioni: una nel 1977, diretta a Giove-Saturno-Urano-Nettuno; una nel 1979 diretta a Giove-Urano-Nettuno-Plutone, cioè saltando Saturno. Non è stato ancora deciso se quella che include Saturno passerà fra gli anelli o fuori degli anelli: il progetto tuttavia è di non seguire il consiglio di Lang e tentare di indirizzare l’astronave fra Saturno e i suoi anelli, in modo da osservare questo e quelli. E come sarà questa astronave? Nel suo aspetto esterno, un oggetto assai elementare: praticamente composto di una grande antenna attaccata al sistema di propulsione. Fuorché nei pannelli solari, che non avrà, assomiglierà abbastanza ai Mariner inviati a Venere e a Marte. Però è ovvio che viaggerà a energia nucleare e che i suoi strumenti saranno tra i più geniali che siano mai stati inventati. A cominciar dal cervello elettronico che sostituirà i comandi da Terra, correggendo la traiettoria dopo il calcio di ogni pianeta, aggiustandosi ogni volta che verrà colpito da meteoriti, immagazzinando e poi trasmettendo le immagini e le informazioni: per anni. Infatti passerà dinanzi a Giove dopo 650 giorni dal lancio, cioè dopo quasi due anni. Passerà dinanzi a Saturno dopo quasi cinque anni, dinanzi a Urano dopo sette anni, dinanzi a Nettuno dopo più di nove anni, dinanzi a Plutone dopo tredici anni. Vi sono uomini, come l’italiano Francesco Roselli Lorenzini, che lavorano a tale progetto ora che hanno trent’anni: quando l’astronave raggiungerà Plutone, ne avranno quasi sessanta: col lancio del 1979, l’arrivo a Plutone non è atteso prima del 1992. Ma può darsi che i tredici anni diventino quindici e che l’arrivo a Plutone non avvenga prima del 1994 o ’95. E poi? Poi, passato Plutone, laggiù in quelle lontananze remote dove il Sole appare più piccolo di una nocciolina, l’astronave uscirà dal nostro sistema solare. E si perderà nell’ignoto, diretta verso qualche altra stella. E sarà il primo oggetto costruito dall’uomo che lascerà il nostro sistema solare per volare verso un’altra stella.
I RESPONSABILI DEL FUTURO
Nella vallata che nasce dalle montagne di Los Angeles e contiene il sobborgo di Pasadena, si leva un gruppo di edifici bianchi e sorvegliati dai poliziotti. L’ignaro che capiti lì se ne accorge appena: distratto com’è dalla bellezza del luogo. La strada infatti si arrampica fra gole e dirupi, a tratti è fasciata da antiche querce e da sicomori, intorno stagna un sereno silenzio. È difficile lì ricordare che siamo ancora a Los Angeles dove i neonazisti si divertono a provocare incidenti mortali con le motociclette e la svastica, gli omosessuali esibiscono reggipetti e orecchini, la droga si vende come il caffè, e Sirhan Sirhan uccise Kennedy, un diabolico assassino massacrò Sharon Tate e i suoi amici. Anche gli uomini che escono da quegli edifici hanno un’aria perbene, civile. Indossano camicie, portano cravatte, e guidano le loro automobili senza strider le ruote o bruciare il motore. Li diresti impiegati, anonimi funzionari statali. Non credi ai tuoi orecchi quando ti spiegano che sono i fisici, gli astrofisici, gli astronomi, i chimici, gli ingegneri che prepararono il viaggio alla Luna e ora preparano il viaggio agli altri pianeti: insomma i responsabili più diretti del nostro futuro. Quanto agli edifici bianchi e sorvegliati dai poliziotti, appartengono al JPL: cioè il veneratissimo Jet Propulsion Laboratory che da vent’anni riunisce intorno a sé l’aristocrazia della scienza. Al JPL, i tipi come von Braun sono considerati alla stregua di meccanici con un certo talento. I personaggi dinanzi ai quali ci si toglie il cappello sono tipi come William Pickering. Se hai un po’ di fortuna, lo incontri. È quel signore timido e di mezz’età, quasi calvo, che marcia diritto come un generale e ti lancia distratte occhiate celesti. Non sarà certo lui a spiegarti quant’è eccezionale, ma lo saprai lo stesso e presto. Nato in Nuova Zelanda, emigrò in California ragazzo: per studiare al Cal Tech. Qui si laureò in fisica e ingegneria elettrica, lavorò con Robert Millikan, premio Nobel, nella ricerca dei razzi cosmici ad altezza profonda. Membro della Accademia nazionale delle scienze, divenne direttore del JPL nel 1954. Inventò e applicò il sistema di comunicazione coi satelliti artificiali e con le astronavi che portano uomini a bordo. È evidente infatti che durante il volo bisogna localizzare in ogni momento l’astronave o il satellite: calcolandone la velocità, la distanza, la posizione, ricevendo informazioni e spedendo segnali che controllino la rotta, gli strumenti automatici, comunicandoci insomma anche a milioni di miglia di distanza. Però la Terra gira, e, mentre gira, si perde il contatto fra l’oggetto in volo e la stazione che lo lanciò. Come risolvi il problema? Come lo risolse Pickering, cioè con una rete di comunicazione basata su antenne sparse sul nostro pianeta. Le antenne sono: una a Goldstone, in California, una a Johannesburg, in Sud Africa, una a Tidbinbilla e una a Woomera, in Australia, una a Robledo e una a Cerebros, in Spagna, una a Cape Kennedy, una nell’isola di Ascension nell’Oceano Atlantico. E se capisci come funziona il sistema, in fondo assai elementare, ti rendi conto che gli astronauti non avrebbero mai potuto orbitare la Terra e andar sulla Luna senza William Pickering. Non solo: le sonde a Venere, a Marte, alla Luna non sarebbero servite a un bel nulla. Le antenne di Pickering sono così sofisticate che funzionano al limite del nostro sistema solare. Il JPL fa tutt’uno col Cal Tech, cioè quel California Institute of Technology al quale ogni studente sincero sogna d’essere ammesso. Nacque, nel 1936, proprio grazie ad alcuni studenti e professori del Cal Tech che conducevano esperimenti su una certa faccenda chiamata propulsione a razzo. Uno studente di meteorologia, Weld Arnold, raccolse mille dollari per comprare qualche strumento, una capanna di legno fu costruita là dove ora c’è l’edificio principale, e i risultati furono così soddisfacenti che l’Accademia nazionale delle scienze li segnalò all’aviazione. Il gruppo, protetto dallo specialista in aerodinamica Theodore von Karman, costruì il primo jet militare nel 1941. Nel 1944 si chiamava già JPL e lanciava per l’esercito i primi missili balistici: come il Sargeant, il Corporal. Nel 1958 si occupava già di satelliti artificiali e costruiva un razzo che portava a bordo strumenti d’un certo James van Allen, insegnante all’università dello Iowa. Gli strumenti erano per studiare le radiazioni, il razzo era l’Explorer. Partì da un luogo chiamato Cape Canaveral, e scoprì ciò che ora va sotto il nome di «cinture radioattive di van Allen». Poi i russi lanciarono il primo Sputnik, Eisenhower consegnò il JPL alla Nasa, e l’esplorazione spaziale passò nelle mani dei maghi di Pasadena. La Luna, in fondo, l’hanno conquistata loro. Con quei Ranger che andavano a fracassarsi sul Mare della Tranquillità scattando fotografie fino all’ultimo momento.
I TALENTI ITALIANI
Ricordi i Ranger, la superficie lunare che appariva vicina, sempre più vicina? Con quei Surveyor che atterravano senza rompersi e ci regalavano immagini prese a un metro di distanza. Ricordi i Surveyor, quei sassi grossi quanto un pugno? Se ne parla ormai come delle carrozze tirate dai cavalli. Eppure il primo Surveyor allunò solo tre anni fa, il secondo il terzo il quarto solo due anni fa, e non erano carrozze tirate dai cavalli. Oltre a fotografare e trasmettere, scavavano il suolo, ne esaminavano la struttura e la consistenza, ne misuravano le particelle radioattive: quando Armstrong e Aldrin sbarcarono sulla Luna, sapevano già quasi tutto. L’ultimo Surveyor, quello che allunò nel Mare delle Tempeste, continuò a trasmettere fino al 20 febbraio scorso. Il momento in cui si chetò, fu una specie di lutto. Infatti a novembre il comandante del prossimo Apollo, Pete Conrad, andrà a cercarlo per farlo funzionare di nuovo. E poi quella macchina meravigliosa che battezzarono Mariner. Il Mariner II fu spedito a Venere nel 1962. Il Mariner IV fu spedito a Marte nel 1964. Il Mariner V, ancora a Venere nel 1967: passò vicino al Sole più di qualsiasi altro oggetto spedito nello spazio e ci informò sull’esatta temperatura di Venere, sulla sua densità, sul calore che cuoceva la sua superficie, sulla fascia di idrogeno che la avvolgeva e fuggiva verso la ionosfera. Un capolavoro come quello compiuto intorno a Marte dal Mariner VI e dal Mariner VII, lo scorso luglio. Grazie a scienziati come Pickering, Barth, Neugebauer, Schurmeier, Leighton, Kliore, Pimentel, tutti nomi che alla folla non dicono nulla perché la pubblicità è fatta solo sugli astronauti e von Braun e Houston e Cape Kennedy. Ben pochi sanno che esiste il Jet Propulsion Laboratory e che ogni cosa incomincia laggiù, ai piedi delle montagne azzurrine, dentro una specie di eremo circondato dalle querce e dai sicomori. Tanto meno sanno che buona parte di quelli che ci lavorano portano cognomi così: Casani, Tito, Renzetti, Colella. John Casani, un biondino di trentasett’anni, è l’ingegnere che ha diretto la costruzione, il lancio, il volo dei Mariner dal 1965 a oggi: la Nasa gli ha dato perfino una medaglia per «l’eccezionale servizio». Appartiene al JPL dal 1950, ha progettato anche i voli dei primi Ranger alla Luna, viene da Filadelfia dove suo nonno sbarcò nel Milleottocento come emigrante. Era, mi pare, uno scultore di Lucca. Sono quasi sempre figli di emigranti: l’italiano ormai non lo parlano più. Però se ne trovano anche alcuni che in inglese conversano con esitazione, e sono i giovani giunti da un anno o due: a rappresentare un talento che lasciamo fuggire perché le nostre università non hanno attrezzi, perché il nostro governo spreca i soldi nelle lotterie di Canzonissima anziché impiegarli in ciò che dovrebbe. Incontrarli ti dà insieme orgoglio e tristezza, li ascolti pensando che probabilmente in Italia non ci torneranno mai più. Con l’eroico proposito di tornare indietro, io ho trovato soltanto Francesco Roselli Lorenzini. È un ingegnere di trent’anni, romano, che fino a un paio d’anni fa lavorava a Parigi per il Centro spaziale europeo. Vide un annuncio sul giornale, pubblicato dalla Nasa, che cercava gente capace, e si offrì. Lo rintracciarono subito, si accorsero subito che bisognava agguantarlo. E sai cosa fa a Pasadena questo italiano che per occuparsi di cose serie era dovuto andare a Parigi? Lavora al satellite artificiale che orbiterà Giove e a quello che compirà il Grand Tour. Prepara inoltre un nuovo sistema di propulsione che prima o poi adotteranno: lo circondano di una tale stima, lì al JPL. Sicché correvamo, io e questo italiano, sulla sua automobilina scoperta, lungo la strada che conduce all’eremo dei maghi, e a un certo punto esclamai: «Ma cosa fa un uomo dopo aver costruito un’astronave per Giove?, cosa viene dopo per lui?». E lui gridò, superando il rumore del vento: «Be’, quando ho sistemato questa faccenda di Giove eccetera, mi piacerebbe tanto costruire un po’ di strade in Calabria». Ecco, sono questi i tipi che preparano il Grand Tour, il viaggio fino alle lontananze remote dove il Sole appare più piccolo di una nocciolina.