il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2018
Le bistecche non fanno male
Sono anni che sentiamo ripetere quanto la carne faccia male alla salute e quanto gli allevamenti impattino negativamente sull’ambiente. Tanto che da tempo diamo quasi per scontato che una fetta di prosciutto faccia più male di dolci, bibite zuccherate e junk food vari, e c’è chi pensa davvero che per il clima sia peggio la zootecnia di settori devastanti per l’atmosfera terrestre come quello energetico o dei trasporti. E così c’è chi crede di fare il proprio dovere contro il cambiamento climatico scegliendo il menu “veg” sul suo ennesimo volo intercontinentale, o addirittura chi si ostina a dire che carni e salumi sono cancerogeni, e li paragona a fumo e amianto. Conta poco considerare quelli che sono i veri impatti (anche positivi) delle produzioni zootecniche su paesaggi, territori e comunità. E a chi importa degli effetti sulla salute che può avere una costante propaganda anti-carne su persone che, generalmente in buona fede, improvvisano diete totalmente prive di proteine animali sia per sé che per i propri figli?
A me importa. Parlare con medici pediatri che hanno visto ricomparire il rachitismo in Italia dopo decenni, o che si sono ritrovati a fare trasfusioni d’urgenza a bambini di un anno grandi come bebè di pochi mesi – guarda caso sempre figli di coppie che hanno imposto diete restrittive come quella vegana ai propri piccoli – mi ha fatto sentire in dovere di contribuire a riequilibrare un’informazione che, su questi temi, è quasi prettamente di stampo ideologico, spesso scorretta e troppe volte in balia di un animalismo ormai ridotto a un’insensata umanizzazione degli animali.
Vedere poi delle brave persone, come è la maggior parte degli allevatori, chiudere bottega nonostante gli sforzi, gli investimenti e il costante lavoro per migliorare perché continuamente attaccati da chi non sa nulla del loro settore (o peggio, crede di saperlo perché ha sentito dire in tv questo o ha visto su Internet quello), mi ha portato a prendere posizione in loro difesa. Tutto questo non significa che nel settore zootecnico sia tutto perfetto, che la produzione di carne non impatti sull’ambiente, e neppure che si debba mangiare tutti più carne. Ma che per il bene nostro, dell’ambiente e degli stessi animali è necessario riportare il dibattito su questi temi sulla via della razionalità. Da quando ho collaborato alla revisione del rapporto “La sostenibilità delle carni e dei salumi in Italia”, in particolare, il mio punto di vista sul settore zootecnico italiano è molto cambiato. Leggere, rileggere e a volte studiare i contenuti e le decine di fonti di questo studio, così come visitare numerosi allevamenti, stabilimenti e impianti di trasformazione, è stato per me incredibilmente istruttivo. Non solo, mi ha dato modo di sfatare diversi miti che da anni circolano sull’argomento. Ad esempio, siamo sicuri che rischiamo di prendere il cancro solamente perché mangiamo un po’ di carne? Forse dovremmo prendere in considerazione centinaia di altri fattori, a partire da quelli genetici ed ambientali.
Servono veramente 15 mila litri di acqua per produrre un chilo di manzo? No, la maggior parte di quest’acqua torna nel suo ciclo naturale, quindi non viene “consumata”. Mangiamo davvero 90 chili di carne all’anno, in Italia? Se consideriamo anche le parti non edibili come ossa, pelli e cartilagini forse ci si può avvicinare a questo quantitativo. Ma se si considera quella che finisce effettivamente nel nostro piatto non arriviamo neppure alla metà. Ci sono ormoni o tracce di antibiotici nelle carni che mangiamo? Se provengono da filiere gestite legalmente, no.
Lo so, difendere apertamente carne e allevatori è un tantino controcorrente, di questi tempi, soprattutto per chi come me si occupa di ambiente. Eppure proprio la mia passione per la natura e per la tutela della biodiversità mi ha fatto andare oltre i luoghi comuni di gran parte del mondo ambientalista. Prendere posizione in questo modo mi è già valso parecchie critiche, messaggi privati e commenti pieni di insulti, auguri di prendere il cancro e altre psico-banalità simili. Ma anche molti messaggi di supporto e solidarietà, soprattutto da colleghi giornalisti ambientali: una piacevole sorpresa.
Anche riuscire a far pubblicare il mio libro è stato più difficile di quanto potessi immaginare. Oggi il “veg” va molto di moda e, come mi ha esplicitamente detto l’editor di una delle case editrici a cui mi sono rivolto, “in ambito alimentazione è tutto pro-vegan. Un libro sulla nutrizione che non si allinei a questo trend non verrebbe preso in considerazione non solo dal lettore, ma anche da distribuzione, librai, ecc.”. Ma questa “bolla modaiola scoppierà presto”, mi ha poi detto.
Spero con questo mio libro di contribuire al suo scoppio, per tornare a parlare e scrivere in modo più razionale di temi importanti come l’alimentazione, la salute, l’ambiente e il rispetto degli animali.