la Repubblica, 4 dicembre 2018
Scandalo al Cairo: «Abito immorale». La star a processo
Se lo avesse indossato su un tappeto rosso in Europa o negli Stati Uniti, l’abito con cui l’attrice Rania Youssef si è presentata venerdì sera alla chiusura del festival internazionale cinematografico del Cairo sarebbe probabilmente passato inosservato: corpetto nero e un velo di tulle illuminato da strass a coprire/scoprire le gambe. Nulla di particolarmente originale o raffinato da attirare l’attenzione del pubblico e della stampa specializzata. Se non fosse appunto che l’abito in questione è stato sfoggiato in Egitto: un Paese dove negli ultimi anni i costumi femminili stanno diventando sempre più conservatori (vedi l’aumento esponenziale delle donne velate). E dove a velocità ancora maggiore sta crescendo il numero dei censori di professione.
Nel più feroce di questi, l’avvocato Samir Sabri, è incappata Youssef, in cerca dei suoi 5 minuti di celebrità: l’uomo che in un’intervista al New York Times si è vantato di aver aperto 2.700 casi di questo genere in 40 anni, ha denunciato l’attrice per insulto alla morale pubblica: la prima udienza è prevista il 12 gennaio. Se condannata – e visti i precedenti non è un’ipotesi remota – Youssef, che ha una quarantina di anni, rischia cinque anni di carcere.
Il braccio di ferro fra l’attrice e l’avvocato non è che l’ultimo di una lunga serie in un Paese dove, dopo il fallimento della Primavera araba nel 2011 e il ritorno di un governo forte nelle mani dell’ex colonnello Abdel Fatah al Sisi, le libertà individuali sono sempre più nel mirino. Sotto processo per aver insultato il Paese e i suoi valori negli ultimi anni sono finiti, fra gli altri, una cantante che aveva sostenuto in pubblico che l’acqua del Nilo fosse troppo inquinata per berla. E una sua collega che in un video aveva avuto atteggiamenti considerati eccessivamente espliciti. Ma non solo: lo stesso Sabri aveva raggiunto l’onore delle cronache internazionali già qualche anno fa, quando aveva chiesto l’apertura di un’inchiesta – poi archiviata – contro Abla Fahita, lo show delle più famose marionette d’Egitto: finite nel mirino per aver violato la morale pubblica a causa delle battute a sfondo sessuale usate nello show.
Non tutte le accuse finiscono con una condanna. Ma in Egitto la libertà di stampa e di parola negli ultimi anni si è drasticamente ridotta, come dimostrano le decine di attivisti, giornalisti, avvocati rinchiusi nelle carceri: e queste cause contribuiscono a chiudere una cappa di silenzio su ogni forma di pubblica espressione, che sia seria o faceta. Lo dimostra il fatto che intorno a Youssef negli ultimi giorni si sia scatenata una vera e propria tempesta: su Twitter decine di utenti ne hanno chiesto la condanna immediata. Le scuse che ha offerto su Facebook non sono servite a placare le polemiche.
«Non avevo capito che quell’abito avrebbe creato così tanta rabbia – ha scritto – voglio riaffermare la mia fedeltà ai valori della società egiziana». Ma all’avvocato Sabri e ai suoi questo non basta: «L’aspetto della signora Youssef non rispettava i valori, le tradizioni e la morale dell’Egitto e dunque metteva in discussione la reputazione del festival e delle donne egiziane», ha detto il legale all’agenzia Afp.