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 2018  dicembre 04 Martedì calendario

Biografia di José Carreras

José Carreras (Josep Maria Carreras i Coll), nato a Barcellona il 5 dicembre 1946 (72 anni). Tenore. Già membro, con Luciano Pavarotti (1935-2007) e Plácido Domingo (1941), della formazione «I Tre Tenori». «Posso dire di ritenermi soddisfatto per la mia lunga carriera artistica di oltre 45 anni, con 160 dischi incisi, 50 opere complete, oratori, recital classici e pop, per un totale di 85 milioni di dischi venduti. E soprattutto mi ritengo un uomo fortunato per aver vinto la battaglia più dura: quella contro la leucemia» (a Federico Capitoni) • Terzo e ultimo figlio di una famiglia catalana di modeste condizioni, che nel 1951 emigrò invano in Argentina in cerca di fortuna, tornando in patria l’anno successivo. A soli sei anni, la folgorazione: «Dopo aver ascoltato Mario Lanza nel film Il grande Caruso, tornai a casa intonando La donna è mobile, e continuai a cantarla per ore ed ore anche nei giorni successivi, chiuso dentro al bagno di casa». «Da qui, le lezioni di canto e di pianoforte con Magda Prunera, la madre di un suo amico di giochi; e lo studio presso il locale conservatorio di musica. Proprio a quegli anni (esattamente al 1955, quando aveva appena otto anni) risale la sua prima esibizione in pubblico, cantando La donna è mobile dal Rigoletto verdiano alla Radio nazionale spagnola» (Matteo Pappalardo). Nel 1958, a undici anni, il debutto al Gran Teatre del Liceu di Barcellona, nel ruolo di giovane soprano: dapprima nei panni di Trujamán in El retablo de Maese Pedro di Manuel de Falla, e pochi mesi dopo in quelli del monello del secondo atto della Bohème di Puccini. Conclusi gli studi al conservatorio sotto la guida di Jaume Francisco Puig e Juan Ruax, e abbandonata dopo un paio d’anni la facoltà di Chimica, «a 23 anni il giovane Carreras era un tenorino di belle speranze. Il caso volle che, mentre studiava a Barcellona in casa del suo maestro, giungesse in visita Carlos Caballé, fratello del soprano Montserrat, agente potentissimo e ascoltato. “Che voce splendida, chi è?”, chiese Caballé udendo Carreras cantare una romanza. Era fatta: nel 1970 il “tenorino” debuttava al Gran Liceu [nel ruolo di tenore, appunto – ndr]. Dapprima una particina in Norma, accanto alla divina Caballé, poi il ruolo di Ismaele in Nabucco, quindi due grosse occasioni sempre accanto a Montserrat, della quale era […] il pupillo: Maria Stuarda e Lucrezia Borgia. Nel mezzo, un’infelicissima Bohème a La Coruña, con una terrificante stecca sul do della romanza di Rodolfo: “Alcuni critici mi predissero allora non più di sei mesi di carriera – ricorda divertito Carreras –. Per loro sfortuna, canto ancora”. Il decollo avviene nel ’71, con la vittoria al Concorso di Busseto, e da allora Carreras si è diviso tra Scala e Metropolitan, Covent Garden e Staatsoper di Vienna, Salisburgo e Arena di Verona» (Vittoria Doglio). «José Carreras […] è stato uno straordinario tenore lirico fino alla metà degli anni Settanta: un periodo di forma vocale brevissimo, nel quale con morbidezza e dolcezza inarrivabili egli poté trionfare nella Lucrezia Borgia (Barcellona, 1971), nella Butterfly (New York, 1972), nel Rigoletto (Vienna, 1975), nel Don Carlos (Salisburgo, 1976) e in altre opere tra cui Traviata, Lombardi e Bohème. In quel timbro di seta, in quella dizione netta e solare sembrava reincarnarsi, come per incanto, il grande “Pippo” Di Stefano (e in effetti Carreras non ha mai smentito una sua predilezione per l’artista siciliano). Stessi pregi, medesimi difetti: la scelta di un repertorio durissimo (Tosca, Aida, Forza del destino, Andrea Chénier, Trovatore, Turandot) ha prodotto un ancor più rapido declino vocale, rispetto allo stesso Di Stefano. Già nell’Aida di Salisburgo del 1979, diretta da von Karajan, l’organo vocale risultava compromesso da durezze, falsetti, legato imperfetto, canto a gola spiegata; il Don Carlos (Salisburgo, 1986) ha messo impietosamente in mostra l’accentuarsi di tali pecche. Nel luglio del 1987, durante le riprese del film-opera La Bohème di Comencini, Carreras è stato colpito da una grave forma di leucemia» (Enrico Stinchelli). «Sul povero Carreras si era abbattuta la maledizione della Juive di Halévy, l’opera che porta scalogna ai tenori. Caruso e Tucker morirono dopo averla cantata, lui rimediò una leucemia» (Alberto Mattioli). «Ma lui non si arrende: “Se c’è una possibilità su cento di superarla, sarà mia”. Tra chemioterapie e trapianto di midollo osseo a Seattle, calcolava la durata delle cure dal numero delle arie favorite, tra le otto e le dieci, che non smetteva di cantare. I colleghi gli furono molto vicini. “Rimettiti presto in forma, altrimenti non ho concorrenza”, gli diceva Pavarotti» (Gian Antonio Orighi). «Mi sono aggrappato in ogni istante alla musica. L’ho sempre considerata un conforto spirituale. E nella mia lotta contro la leucemia mi ha sostenuto il desiderio di poter un giorno tornare a cantare. Anche nei momenti peggiori non ho mai smesso di studiare musica. Ma soprattutto di ascoltarla. Le mie giornate avevano sempre la musica in sottofondo. E non era necessariamente classica. Anche se ascoltavo e riascoltavo il Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra di Rachmaninov. Non saprei dire il perché, ma avvertivo una malinconia, un misticismo che mi confortavano e mi davano speranza» (a Pierachille Dolfini). «Nelle sedute di radioterapia canticchiavo mentalmente Celeste Aida. Dura quattro minuti. Dopo averla cantata quattro volte, sapevo che avevo finito. Una ventina di minuti, per uscire dal tunnel». «Sono stato circa un anno lontano dai palchi perché assolutamente concentrato sul mio recupero. Quando sono tornato a Barcellona, tale era la mia ansia di tornare a cantare che il professor Rozman ha dovuto dirmi di rilassarmi e di essere paziente. Poco a poco mi stavo riprendendo, recuperando non solo la voce, ma anche la forza per tornare ad esibirmi sul palco». Finalmente guarito, il 21 luglio 1998 celebrò «un momento molto speciale: il ritorno sul palcoscenico. È stato in un concerto pubblico presso l’Arco di Trionfo a Barcellona. Ho deciso che la prima canzone da cantare doveva essere T’estimo, un adattamento catalano di Io t’amo di Edvard Grieg. Volevo che in quel momento ogni persona presente si sentisse personalmente chiamata in causa». Pochi mesi dopo, il 9 dicembre, si esibì in Vaticano, nella Sala Nervi, per raccogliere fondi per l’Ail (Associazione italiana contro le leucemie). «“È stato un momento straordinariamente felice, intimo e pieno di spiritualità, anche perché ciò che interpretammo fu la Misa Criolla (Messa creola) del compositore Ariel Ramírez”. Sempre nel 1988 ha creato la fondazione che porta il suo nome. […] “Insieme ad un grande team di scienziati e imprenditori e con il sostegno della mia famiglia, nel 1988, creai la Fondazione internazionale Josep Carreras, per aiutare a trovare una cura per la leucemia. La verità è che ho iniziato questo progetto in segno di gratitudine pura. Quando mi ammalai la società si prodigò molto per me. Volevo restituire tutti questi segni di affetto sia alla gente che alla scienza in generale. Fin dalla sua nascita la ‘Fundación’ persegue un grande obiettivo: […] fare in modo che la leucemia sia una malattia curabile in tutti i casi. Per affrontare questa sfida la Fondazione offre borse di studio a sostegno della ricerca scientifica, la fornitura di infrastrutture ad ospedali per creare unità di trapianto e banche del sangue del cordone ombelicale e servizi sociali per i pazienti poco abbienti e le loro famiglie”» (Lorenzo Paladini). In occasione della serata conclusiva dei Mondiali di calcio italiani, il 7 luglio 1990, a Roma, presso le Terme di Caracalla, Carreras, Domingo e Pavarotti debuttarono nel primo concerto dei «Tre Tenori». «Nel ’90, per il Mondiale di calcio in Italia, mi proposero di partecipare a un gala. Io suggerii di farlo con i tre tenori più gettonati. Ne parlai con Pavarotti e Domingo, che accettarono». «Quel primo concerto con Plácido e Luciano, in realtà, era stato organizzato per sostenermi nella creazione della Fondazione Josep Carreras per la lotta alla leucemia. […] Da allora la lirica è stata invitata a tutti i successivi appuntamenti dei Mondiali: dopo Italia ’90, noi siamo stati chiamati a Los Angeles nel ’94, a Parigi nel ’98, a Yokohama nel 2002, sempre per la finale. Ma non solo: tra il 1990 e il 2004 abbiamo tenuto assieme una trentina di concerti» (a Elisabetta Rosaspina). Il sodalizio – tanto acclamato dal grande pubblico, e foriero di lauti guadagni, quanto aborrito dai critici – si sciolse in seguito alla morte di Luciano Pavarotti, occorsa il 6 settembre 2007, a 71 anni. Fu lo stesso Carreras, pochi mesi dopo, a proclamare: «I Tre Tenori non si riformeranno mai più. Nessuno può sostituire Pavarotti: sarebbe un tradimento». In quegli stessi anni Carreras ha detto gradualmente addio all’opera lirica, senza però rinunciare a tenere concerti, esibendosi in arie d’opera, romanze e canzoni napoletane. Nel 2016 ha dato inizio a quella che dovrebbe essere la sua tournée internazionale d’addio, Una vita in musica, tuttora in corso. «L’intenzione è di tornare in tutti i teatri e in tutte le città dove ho avuto la possibilità di cantare, dunque sarà un giro piuttosto lungo. Non c’è una scadenza: può darsi che siano due o tre anni, e poi dovrò anch’io pensare a lasciare il passo alle nuove generazioni». «Penso che cantare ancora alla mia età sia un enorme privilegio, ma non bisogna esagerare. Sono molto contento di poter salire oggi sul palco, di continuare a trasmettere emozioni al pubblico: per me questo è il regalo più prezioso. Sono però consapevole che tutto finisce. […] Lascerò il palco per occuparmi solo della mia Fondazione contro la leucemia e degli istituti di ricerca e del centro clinico che finanziamo» (a Guido Andruetto) • «Considero l’Italia la mia seconda patria». «Per me la Scala non ha paragoni al mondo, e Verdi è il mio autore». «Non c’è dubbio che nelle mie corde artistiche, oltreché nelle mie corde vocali, il primo posto sia tenuto dal grande repertorio romantico, in cui spiccano le opere di Verdi, che sono buone per la salute degli artisti. Verdi sapeva come scrivere grande musica senza richiedere un estremo sacrificio vocale ai cantanti» • Due matrimoni alle spalle; due figli, Albert (1972) e Julia (1978), dalla prima moglie. «Insieme a Katia Ricciarelli ha costituito per un decennio una coppia fantastica, anche scenicamente: si sono innamorati nel 1971, si sono lasciati nell’82, sfiniti da un legame che – come sempre accade quando lui è sposato e padre e lei ha legittime aspettative, mai confortate – ha alternato momenti di passione, liti, ritorni di fiamma e nuovi abbandoni» (Doglio). Negli ultimi anni la Ricciarelli ha più volte definito Carreras «il più grande amore della mia vita» • «“Il calcio è la mia più grande passione. Mi correggo: è il Barcelona la mia più grande passione. Sono un tifoso scatenato, uno di quelli che d’estate sentono la mancanza del Camp Nou e delle partite. […] Fu mio padre, quando avevo dieci anni, ad accompagnarmi per la prima volta a vedere una partita al Camp Nou. Fino ad allora mio padre non se l’era sentita di portarmi nel vecchio Les Corts, che era molto più piccolo e anche un po’ pericoloso. Rimasi a bocca aperta affacciandomi sul nuovo campo. Quello per me era un giorno speciale: c’ero anch’io a fare il tifo”. Da grande, poi, l’amore per il Futbol Club Barcelona Carreras ha continuato a coltivarlo con la fedeltà, anno dopo anno, campionato dopo campionato. “Mi perdoni la presunzione, ma il Barcellona, come ha detto il presidente Narcís de Carreras i Guiteras, è "més que un club" (più che un club, ndr). È un’espressione dell’identità per la maggior parte di noi catalani. Tifare il Barcellona significa seguire le nostre tradizioni, le nostre radici, quello che in forme diverse rappresenta lo spirito di indipendenza e il nazionalismo catalano”. […] Accertata la passione calcistica, gli chiediamo se abbia mai calciato una palla in vita sua. “Eccome: sono stato un ragazzo anch’io! Nel quartiere dove sono cresciuto, a Sants, giocavamo tantissimo con i miei amici e compagni di scuola. So quanto può essere grande la gioia di avere un pallone tra i piedi”. […] “Come ha detto qualcuno, il calcio non è una questione di vita o di morte: è molto più importante”» (Andruetto) • «La malattia è stata lo spartiacque nella mia vita. Una situazione così difficile cambia le priorità per sempre. Prima ero lanciato nella corsa dell’egoista, come diceva Vittorio Gassman: pensavo soltanto a cantare, alla carriera, al successo. Che non è la cosa più importante. Adesso dedico gran parte del mio tempo alla Fondazione. Abbiamo filiali in Germania, in Svizzera, negli Stati Uniti. Abbiamo creato un registro di potenziali donatori di midollo osseo con 350 mila iscritti, grazie al quale più di 8.500 malati nel mondo si sono potuti sottoporre a trapianto. Siamo collegati anche alla Banca del midollo osseo in Italia e al Registro centrale del Minnesota: è una rete di 25 milioni di possibili donatori, importantissima perché solo in un caso su quattro c’è un famigliare compatibile. Ma la buona notizia è che il midollo osseo può viaggiare da un Paese all’altro». «La malattia mi ha fatto riscoprire la dimensione spirituale dell’esistenza. Una presenza che da allora è diventata costante nella mia vita. Ogni anno con la mia Fondazione organizziamo un pellegrinaggio a Lourdes: una grande gioia per me, un’esperienza unica a contatto con la sofferenza e la fede» • «Quali sono state le tappe decisive della sua carriera? "Tutti i debutti. Quello all’Opera di Vienna, al Metropolitan Opera House di New York, al Royal Opera House a Covent Garden, al Teatro dell’Opera Bavarese di Monaco. Anche se logicamente il più importante fu quello alla Scala nel 1975 per Un ballo in maschera di Verdi. La regia di Zeffirelli, al mio fianco Montserrat Caballé nel ruolo di Amelia. Quanti ricordi". Ne avrà molti altri. "L’incontro con il Maestro von Karajan al Festival di Salisburgo fu per me cruciale. Sotto la sua direzione ho interpretato le opere più grandiose: l’Aida, il Don Carlo, la Tosca, la Carmen". Di chi sente maggiormente la mancanza tra i grandi artisti con cui ha collaborato? "Ho forte nostalgia di Abbado e Pavarotti. Erano veramente due campioni straordinari. Ho avuto la possibilità di averli come colleghi e come amici. Claudio è stato uno dei direttori più geniali della storia della lirica e del mondo sinfonico. […] Il tempo passa, ma mi resta questo senso di pienezza, di soddisfazione per quanto abbiamo fatto. Luciano era un tenore dal talento smisurato e un amico del cuore con cui parlavo di tutto, dai piccoli problemi quotidiani alle cose importanti della vita come il calcio (ride, ndr)". […] C’è un duetto che è rimasto nel cassetto dei desideri? "Quello con Maria Callas: non è stato possibile, ma sarebbe stato meraviglioso". Il suo concerto più importante di sempre? "A Barcellona all’Arco di Trionfo, nel 1988, dopo un anno di ospedale. Ero di nuovo sul palco, ero vivo"» (Andruetto). «“Adesso, ci sono due cose che cerco di fare ogni giorno: ascoltare il Concerto numero 2 per pianoforte di Rachmaninov e la voce di Giuseppe Di Stefano”. Di Stefano? Tutti i giorni? “Sì: ho uno stereo in bagno e ascolto Pippo ogni mattina, mentre mi faccio la barba: era il più grande di tutti i tempi”. […] Che cosa le manca? “Non poter più cantare l’Andrea Chénier, come quando avevo 35 anni alla Scala. Non è solo questione di corde vocali: è tutto il fisico che cambia con l’età, e quindi il repertorio. Non canto più la Bohème, la Carmen o il Ballo in maschera, ma anche in questo caso la mia è solo nostalgia, non un vero rimpianto. Al pubblico cerco di dare sempre le stesse emozioni”» (Rosaspina). «La musica […] può essere uno strumento di dialogo che fa incontrare le persone. Può aiutare gli uomini a riflettere sulla vita. Anche per questo, quando canto, spero sempre di arrivare al cuore degli ascoltatori. Per comunicare emozioni. Per trasmettere quella speranza che per me è stata fondamentale».