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 2018  dicembre 04 Martedì calendario

Eco e la tv

Ho sempre avuto la sensazione che Umberto Eco amasse poco la tv. Pur avendo lavorato in Rai: giovanissimo era entrato in azienda nella pattuglia dei «corsari», così erano chiamati i giovani che avevano seguito un corso di formazione voluto dal cattolicissimo Filiberto Guala. Pur avendola analizzata da studioso di grande acutezza qual era, sempre in grado di fornire una veste teorica alle minuzie e alle insidie dello schermo e sempre attento alla coscienza critica dello spettatore.
La sensazione si è rafforzata nel leggere Sulla televisione. Scritti 1956-2015, a cura di Gianfranco Marrone (La nave di Teseo). Intendiamoci, alcuni saggi sono fondamentali e hanno dato l’avvio in Italia agli studi sul mezzo, ma nell’affrontare la tv Eco non lascia mai trasparire quella passione rivolta ad altri ambiti della cultura di massa, come il fumetto o la canzone o il kitsch. La tv non ha mai fatto parte integrante dei suoi studi, è sempre stata qualcosa di occasionale: più un oggetto da convegno o da Prix Italia (ho condiviso con lui l’esperimento Vaduz, 1975, di cui si parla nel libro) che materia d’insegnamento.
Nondimeno, Eco è stato il primo in Italia a dare una svolta internazionale agli studi sulla tv, a cominciare da un memorabile saggio sulla diretta, Il caso e l’intreccio. L’esperienza televisiva e l’estetica, 1956: finalmente la pratica televisiva riceveva un suggello teoretico e il suo linguaggio era studiato in profondità, al pari di altre narrazioni: «La ripresa diretta non è mai una resa speculare dell’avvenimento che si svolge, ma sempre un’interpretazione di esso». Un’osservazione che oggi sembra un’ovvietà, ma che allora gettava scompiglio. La sua idea di fondo era che per studiare la cultura di massa bisognasse arretrare lo sguardo, rifarsi ai filosofi e ai retori del passato, non farsi schiavizzare dalla contingenza.
Per lui, la tv aveva unificato linguisticamente la penisola, là dove non vi era riuscita la scuola. Lo aveva fatto nel bene e nel male. Aveva uniformato non con il linguaggio di Dante, ma con quello di Mike, nel migliore dei casi con quello delle cronache sportive, del Festival di Sanremo, dei telegiornali. Ma adesso era un oggetto da maneggiare con cura e diffidenza: «Una saggia politica culturale (meglio, una saggia politica degli uomini di cultura, in quanto tutti corresponsabili della operazione tv) sarà quella di educare, magari attraverso la tv, i cittadini del mondo futuro a saper contemperare la ricezione di immagini con una altrettanto ricca ricezione di informazioni “scritte”» (Appunti sulla televisione, 1964).
Il momento meno interessante della sua ricerca sulla tv è quello legato agli studi semiotici. In quegli anni, a metà dei Sessanta, c’era una grande infatuazione per la semiologia, vissuta allora come una sorta di «superscienza» della significazione. Eco ci credeva molto, era attratto dalle teorie che mettono ordine al caos della realtà, come le summae medievali, le analisi strutturali: i significanti, i significati, i codici, i sottocodici, l’emittente, il ricettore… Un apparato teorico di rara sontuosità che però dava sempre risultati pratici molto modesti: la semiologia, per esistere, aveva costantemente bisogno di autoalimentarsi, di credere di poter interpretare qualsiasi «pratica linguistica». Ha finito per interpretare solo sé stessa. Letti oggi, i saggi Per una indagine semiologica del messaggio televisivo, 1966, e Per una guerriglia semiologica, 1967, sono disarmanti.
Nel 1972 Eco si è occupato anche di critica televisiva. Riprendendo uno schema di Franco Fortini (il libro Ventiquattro voci per un dizionario di lettere, 1968; nella raccolta non viene citato), Eco propone tre tipologie di «finalità culturali»: la critica normativa, la critica fiancheggiatrice o militante, la critica orientativa. Nel tentare di definire alcuni criteri di teoria analitica e di metodologia critica (sia pure presi a prestito dal campo letterario), cerca di mettere ordine nelle idee che si avevano sulla tv, sulla remota possibilità che potesse essere oggetto di indagine «seria». Si parla di canone, di poetica, di «valore artistico dell’opera». Si tentano i primi cauti discorsi sui generi, sull’estetica televisiva.
Indubbiamente il saggio che in Italia ha in maggior misura alimentato gli studi sul mezzo è stato quello sulla Neo-tv (1981). La sua distinzione fra Paleo-tv e Neo-tv ha contraddistinto tutte le analisi degli anni Ottanta sul mezzo. Col tramonto del monopolio Rai, che aveva caratterizzato il panorama tv fino agli anni Settanta, Eco segnala importanti trasformazioni linguistiche. Un primo aspetto di novità è la crescente autoreferenzialità della tv, che parla sempre meno del «mondo esterno» e sempre più di sé stessa e del proprio rapporto con lo spettatore, per costruire prove della propria verità esistenziale. L’autoriflessività del mezzo e la messa in evidenza delle proprie modalità di enunciazione avviene anche attraverso nuove strategie: l’esibizione degli strumenti tecnici, i provini, gli errori e i ciak sbagliati, lo svelamento di alcune routine di produzione. È la tv che fa di sé stessa l’oggetto privilegiato del proprio discorso e pone le basi per l’elaborazione del proprio culto (nasce la figura del «personaggio televisivo», non più un professionista dello show business ma un campione della «gente comune»).
Paradossalmente, però, i pezzi più interessanti e profondi sulla tv, Eco li ha scritti per «L’Espresso», in articoli vari e nelle «Bustine di Minerva». Non quando il fenomeno televisivo è oggetto della ricerca filosofica o comunicativa, ma quando diventa occasione del commento giornalistico a caldo (del resto, di Roland Barthes si ricordano i Miti d’oggi, non certo Sistema della moda).
Negli articoli si dispiegano tutta l’arguzia, l’ironia, la straordinaria capacità d’analisi di fenomeni in apparenza irrilevanti. È lo stesso Eco a spiegarci che le comunicazioni di massa procedono per fulminanti sineddochi (la parte per il tutto) e che il rischio per lo studioso è che in esse non vi siano più leggi, ma solo esempi. Vero, ancor più dopo l’avvento di internet. Nelle «Bustine di Minerva» e in altri scritti si è occupato di tv verità, talk show, di serialità, di audience. Con vivacità e con intelligenza (sono le osservazioni più acute sul mezzo).
Ho lasciato per ultima la famosa Fenomenologia di Mike Bongiorno, 1961, il saggio più citato e imitato, tanto da essere diventato un tòpos del pezzo di costume. La bravura di Eco non si discute, ma quella vena moralistica e quel non trattenuto senso di superiorità culturale sono stati d’aiuto per capire la cultura pop?