La Lettura, 2 dicembre 2018
Storia dei gatti
Di ogni razza, di qualsiasi origine, colti in tante situazioni diverse. Provate a digitare la parola «gatto» su Google, su Twitter, su Instagram, su Facebook e su Pinterest; e vi troverete dinanzi a un vastissimo archivio di immagini e di post. Dietro questa mania, si nascondono ragioni culturali e antropologiche, come emerge da I gatti nell’arte di Desmond Morris (Johan & Levi). Un’impresa analoga era stata tentata anni fa in una mostra e in un libro: Gatti nell’arte, l’esposizione ideata da Alice Luzzatto Fegiz a Roma, a Palazzo Barberini (1987), e The Painted Cat di Elizabeth Foucart-Walter e Pierre Rosenberg (1988).
Sulle orme di quelle pionieristiche ricognizioni (che però non cita), Morris ci consegna un libro gradevole e brillante, in cui lo sguardo dell’antropologo si intreccia con quello dell’appassionato d’arte e con quello del divulgatore, che si serve di un linguaggio di immediata leggibilità. Morris racconta la storia dell’arte attraverso la lente dei pittori «gattofili», disegnando un itinerario lineare, che conduce dall’antichità alla contemporaneità. Per gli antichi egizi, il gatto è sacro; per i babilonesi, è uno sterminatore di topi; nel Corano, è descritto come puro. In altre civiltà, viene trattato come compagno di caccia e come alleato dell’uomo contro i letali aspidi. Nel Medioevo, si fa immagine malefica e sinistra: «alleato del diavolo», vittima di odi e di persecuzioni, va cacciato. Progressivamente, questa dimensione demoniaca cede il posto a un volto diverso. Simili a bambini teneri e capricciosi, che cercano le coccole e si imbronciano, i gatti via via si sono affrancati da ogni attività pratica, per diventare insostituibili amici dell’uomo, che gli ha spalancato la porta della propria casa.
Di queste oscillazioni si fanno testimoni gli artisti. L’incipit del libro: un’incisione rupestre realizzata in Libia settemila anni fa, la più antica testimonianza di una zuffa tra felini. Altri episodi. Nella grotta di Gabillou, in Francia, si trova una pittura parietale nella quale viene rappresentata una bestiolina «gattesca», con il collo lungo e affusolato, il muso rotondo, le orecchie appuntite. Babilonia: una splendida testa di gatto modellata nell’argilla. E ancora: mentre nell’antico Egitto è un’importante icona culturale e in Grecia una creatura marginale, a Roma il felino è ritratto «sotto una luce più favorevole», come emerge da un mosaico rinvenuto a Pompei in cui si vede un animale ben nutrito e curato, reso con dettagli realistici, il pelo tigrato, mentre con una zampa tiene ferma una pernice viva.
Da queste visioni antiche prende avvio una lunga tradizione, costellata di continue riscritture della più elegante, indolente e scaltra creatura. Nel Medioevo, si «pubblicano» bestiari abitati da magnifiche illustrazioni e da brevi descrizioni, che associano a ogni bestia un racconto morale: i gatti vengono mostrati come disinfestatori dei roditori, con occhi che penetrano «l’oscurità con un bagliore». Siamo nel Rinascimento. Quasi mai questo esserino impossibile da addomesticare è protagonista delle tele dei grandi maestri: in diversi momenti, appare come mero «accessorio» raggomitolato ai piedi delle donne. Tra le rare eccezioni, Leonardo, autore di disegni nei quali vediamo felini attentamente studiati in posture naturalistiche: studi preparatori di un quadro con la Madonna, il Bambino e un gatto tra le braccia di Gesù (a lungo elaborato ma mai realizzato). L’Ottocento sarà l’età d’oro, per i gatti. Gli animatori dell’età vittoriana li ritraggono spesso, collocandoli in intimistiche scene. Lo stesso atteggiamento caratterizza le proposte degli Impressionisti: ad esempio, Manet immortala la moglie Suzanne in compagnia dell’amatissimo Zizi bianco e nero, accoccolato sul suo grembo. L’epilogo: il XX e il XXI secolo. Frida Kahlo, Warhol, Freud e Hockney, tra le voci più originali di quello che è stato chiamato il «felinocentrismo». Predatore violento per Picasso, simbolo della sessualità femminile in Balthus, soggetto popolare tra i vignettisti satirici e i caricaturisti, motivo di denuncia politica in Banksy, il nostro piccolo eroe anarchico resta un’inesauribile fonte per esplorazioni visive e voli pindarici.
Con il suo inconfondibile garbo da affabulatore, Morris ripercorre una vicenda inattesa e sorprendente, ma evita di sottolineare le differenze tra i casi nei quali i gatti sono parte delle composizioni, come elementi interni e «attori viventi», e i casi nei quali sono dati esterni, che non incidono sulla drammaturgia pittorica. Inoltre, procede in maniera diacronica, non individuando orientamenti e indirizzi prevalenti. Il vasto materiale visivo da lui raccolto, invece, avrebbe potuto essere riarticolato in alcune aree principali. Ne sarebbe affiorata una cartografia di diverse «famiglie» di artisti. Innanzitutto, i mefistofelici, che colgono il lato più notturno, luciferino, satanico, diabolico e maligno degli «acchiappatopi», eroi del male e angeli delle tenebre: si pensi a Bosch, il quale, nel Giardino delle delizie, raffigura un gatto dalla lunga coda e il pelo marrone coperto di chiazze nere, che tiene tra le mascelle una grossa lucertola. I freudiani, al contrario, mostrano l’identità più imprevedibile e perturbante dei «nemici fatali» dei ratti, pigri e, insieme, inquietanti e morbosi, dalle smorfie satiresche e maliziose: come fa Balthus in Le nu au chat, in Patience e in Le chat au miroir. Diverso l’approccio degli astratti, come Klee e Cocteau, Chagall e Giacometti, Miró e Picabia e Brauner, che eseguono dipinti dove ritorna l’inconfondibile silhouette felina, anche se semplificata, esasperata, sottoposta a metamorfosi, a distorsioni: memorabili i lavori di Leonor Fini, che si identifica addirittura con un certosino grigio-giallo.
Infine, i domestici, che pensano il gatto come metafora della vita. Ricordiamo qui alcune interpretazioni offerte da artisti di cui Morris non parla nel suo libro: omissioni piuttosto incomprensibili. Il micio impaurito dell’Inondazione di Millais, quello innervosito dell’Olympia di Manet, quello esotico di Gauguin, quello bianco di Bonnard. E, in un viaggio a ritroso: il gatto casalingo e mite, compagno di giochi di Gesù, nella Madonna con il Bambino di Cosmè Tura. E soprattutto quello che sconvolge l’Annunciazione di Lorenzo Lotto: un pomeriggio d’estate. L’interno di una casa gentilizia. Sul retro, una loggia che guarda un giardino con pergolati e conifere. Un’umile e timida fanciulla riceve la visita di un angelo androgino, mentre si volge verso di noi con modestia e finta innocenza. Si respira un clima stregonesco: volano demoni. Questa scena mistica viene interrotta dalla presenza di un gatto che, all’arrivo del giovane estraneo, spaventato, inarcando la schiena, muove testa e coda e scappa via, incrinando la staticità dell’insieme.
I gatti, dunque. A loro Baudelaire aveva dedicato alcuni versi indimenticabili de I fiori del male: «Dolci e possenti, orgoglio della casa (...)./ S’atteggiano, pensosi, nobilmente,/ come le grandi sfingi solitarie/ immerse, sembra, in sogni senza fine».