La Lettura, 2 dicembre 2018
«Riabilitiamo Plutone»
Il 24 agosto 2006 la Iau, International Astronomical Union, l’autorità che assegna i nomi ai corpi celesti e alle loro formazioni (crateri, vulcani e così via) ha approvato la nuova definizione di Plutone: non più «pianeta» bensì «pianeta nano» e «prototipo della nuova categoria degli oggetti Trans-Nettuniani». In pratica, il corpo celeste è stato estromesso dal gruppo di cui fanno parte la Terra, Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno, Urano e Nettuno. La decisione che ha cancellato il nono pianeta (anche dai libri di scuola) ha destato vivaci reazioni tra gli astronomi, per motivi divenuti anche più forti allorché la sonda della Nasa New Horizons è giunta nel 2015 a distanza ravvicinata da Plutone inviando sulla Terra immagini e dati sorprendenti.
«Plutone – spiega a “la Lettura” il fisico planetario Philip Metzger, del Florida Space Institute e della University of Central Florida – ha un nucleo roccioso e una crosta congelata, è geologicamente attivo, con formazione di monti e ghiacciai, ha un clima dinamico e forse un oceano sotterraneo. Secondo me è il secondo pianeta più complesso e interessante nel sistema solare dopo la Terra».
Sono molti gli scienziati che intendono riprendersi Plutone, in un momento «caldo» per i pianeti, mentre atterra su Marte la sonda InSight e fuori dal sistema solare si scoprono esopianeti sempre nuovi. Un gruppo guidato da Kirby Runyon della Johns Hopkins University, con ricercatori del Southwest Research Institute, del National Optical Astronomy Observatory, del Lowell Observatory e della George Mason University, ha aderito a una definizione alternativa di «pianeta», A Geophysical Planet Definition: un pianeta, vi si legge, è «un corpo di massa sub-stellare che non ha mai subito una fusione nucleare e che ha abbastanza gravità da essere rotondo, per via dell’equilibrio idrostatico, indipendentemente dai suoi parametri orbitali».
«Sono d’accordo – spiega Runyon a “la Lettura” – con la definizione di pianeta nano per Plutone. Ma non sono d’accordo con l’affermazione: “I pianeti nani non sono pianeti”. Certo che lo sono! In realtà, ritengo che il voto della Iau sia non vincolante. Pertanto, esperti scienziati planetari e pubblico possono decidere da soli quale vogliono sia la definizione di pianeta».
La sua proposta è estendere la definizione a un centinaio di altri corpi del sistema solare, perché «il modo in cui chiamiamo le cose influenza la nostra percezione della realtà»: «Molti geologi planetari ritengono che chiamare Plutone “pianeta”, insieme ad altri cento mondi rotondi di dimensioni simili nel sistema solare, sia utile per cogliere la “pianetezza”, l’essenza di ciò che costituisce un pianeta. La parola pianeta ha un peso psicologico. Se diciamo che ci sono solo 8 o 9 pianeti, pensiamo che il nostro sistema solare sia un’entità carina, piccola e gestibile. Ma non lo è. È enorme. Ho voluto sfruttare il potere psicologico della parola pianeta come strumento didattico per aprire gli occhi su quanto sia grande il sistema solare, dove, oltre ai pianeti (i mondi rotondi), ci sono miliardi di mondi non rotondi che chiamiamo asteroidi o comete».
Nella definizione geofisica, quindi, il sistema solare comprenderebbe più di cento pianeti, compreso Plutone, ma anche satelliti come Europa e Io, o la stessa Luna. Una definizione molto più inclusiva di quella della Iau, secondo cui invece un pianeta è «un corpo celeste che: 1) è in orbita intorno al Sole, 2) ha una massa tale da assumere una forma di equilibrio idrostatico (all’incirca rotonda) e 3) viaggia su un’orbita ripulita da altri oggetti». Plutone orbita intorno al Sole, ed è rotondo – ma non spazza del tutto la propria orbita. Un pianeta dovrebbe infatti «ripulire» l’orbita su cui corre da tutti gli oggetti più piccoli (asteroidi, oggetti della fascia di Kuiper, ecc.) grazie alle proprie forze gravitazionali.
Tuttavia, proprio quest’ultima proprietà ha destato più di un’obiezione. La più concreta sta nel nuovo studio pubblicato in settembre sulla rivista «Icarus», e firmato dallo stesso Philip Metzger, in un gruppo che riunisce lo stesso Kirby Runyon, Mark Sykes del Planetary Science Institute, e Alan Stern del Southwest Research Institute (nonché principale ricercatore della missione New Horizons).
«Quello che ho scoperto – ha illustrato Metzger a “la Lettura” – è che fin dai tempi di Galileo i pianeti sono stati concepiti come un insieme geofisico, senza riguardo per le caratteristiche orbitali. Galileo e tutti dopo di lui consideravano la nostra Luna un pianeta, anche se non orbitava attorno al Sole. Allo stesso modo le lune di Giove e Saturno erano pianeti (e ancor oggi gli scienziati planetari le chiamano così). Sono lune rispetto alla loro situazione dinamica, ma in quanto «oggetti» sono pianeti. E quando gli asteroidi furono scoperti, la comunità li chiamò pianeti per 150 anni, anche se avevano orbite condivise; con i progressi nella teoria della formazione planetaria, gli asteroidi hanno mostrato processi diversi dai corpi più grandi, e su quella base abbiamo smesso di chiamarli pianeti. Niente di tutto ciò ha a che fare con la loro incapacità di”ripulire orbite”».
Metzger considera una forzatura la definizione della Iau, e va oltre. «Nella decisione del 2006 – conclude – c’era anche una forte motivazione a mantenere basso il numero di pianeti. Si tratta di un pregiudizio culturale, che non ha nulla a che fare con l’utilità scientifica. Si può rintracciare l’origine di tale pregiudizio nelle antiche superstizioni sui pianeti che governano le nostre vite, sugli oroscopi, sulla necessità di sapere quale pianeta ci sta governando in ogni momento della giornata. L’idea che i pianeti siano in qualche modo “speciali” e poco numerosi è profondamente radicata».