La Lettura, 2 dicembre 2018
Meglio non essere mai nati. Conversazione con il filosofo David Benatar
«Quante persone dovrebbero esserci al mondo?», è un interrogativo che oggi si pone negli ambienti più disparati. Ma non so quanti farebbero propria la risposta del filosofo David Benatar: «Zero». Nella Prefazione (datata dicembre 2005) del suo Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo (ora tradotta da Alberto Cristofori per Carbonio Editore) l’autore sudafricano ammette di avere scritto il libro «non nell’illusione che esso faccia una grande differenza nel numero di persone che ci saranno in futuro, ma nella convinzione che quanto ho da dire debba essere detto, a prescindere che sia accettato o meno». E il problema che affronta ha radici antiche. Per esempio, il Talmud narra di «un affascinante dibattito fra due famose scuole rabbiniche», la Casa di Hillel e la Casa di Shammai. La domanda che aveva originato la discussione era appunto se fosse meglio, per gli esseri umani, essere stati creati o no. La Casa di Hillel sosteneva la risposta affermativa: meglio l’essere stati creati. La Casa di Shammai replicava che sarebbe stato meglio se gli esseri umani non fossero stati creati. Il Talmud riporta che le due scuole esaminarono la questione per due anni e mezzo, e alla fine ci si risolse a favore della Casa di Shammai.
Parto da questa conclusione, che non pochi troverebbero «controintuitiva», per chiedere a Benatar di darmi, invece, una definizione sintetica e non ambigua del suo punto di vista antinatalistico.
GIULIO GIORELLO — Per riprendere il titolo del libro, cosa intende dichiarando che «è meglio non essere mai nati?»
DAVID BENATAR — Detto in breve, l’antinatalismo è l’idea che noi non dovremmo portare all’esistenza nuovi esseri senzienti, esseri umani inclusi.
GIULIO GIORELLO — Lei chiarisce, fin dalle prime pagine, che quella tesi «riguarda non solo gli esseri umani, ma tutte le creature» capaci di provare dolore: «Essendo capaci di sentire» tali esseri «sono in grado di sentire la spiacevolezza, e lo fanno». Peraltro, impedire la riproduzione agli altri animali capaci di sentire forse produrrebbe un dolore maggiore, dato che l’istinto biologico è assai potente. L’ampiezza del problema, mi sembra che ci porti oltre le preoccupazioni più tipicamente religiose. E nel capitolo conclusivo di Meglio non essere mai nati lei dice esplicitamente che nella valutazione dell’antinatalismo è opportuno prescindere dall’esistenza di Dio. Questi «non è mai venuto al mondo»: se i monoteisti hanno ragione, Dio è sempre esistito; se hanno torto, non è mai esistito. Comunque sia, quel che noi possiamo giudicare della qualità della vita degli esseri umani e degli altri animali non ha alcuna conseguenza sulla qualità della vita divina. Né, come lei argomenta, è utile «assumere una visione troppo monolitica della religione», come mostra lo stesso contrasto raccontato nel Talmud...
DAVID BENATAR — Riconoscere un punto del genere può evitare un frettoloso rifiuto dell’antinatalismo su base religiosa.
GIULIO GIORELLO — Su questo sono d’accordo. Nel libro lei formula, invece, da una prospettiva materialistica un giudizio di valore sulla qualità delle vite delle altre persone, e proprio su tale base sostiene che noi non dovremmo più mettere al mondo dei figli. Ma non è proprio qui che si annida una sfumatura di atteggiamento totalitario?
DAVID BENATAR — No: il solo formulare un giudizio morale non è totalitario. L’antinatalismo diventerebbe totalitario solo se lo Stato, operando in base a un giudizio del genere, vietasse alle persone di procreare. Tuttavia, coloro che sostengono l’antinatalismo non sono per ciò stesso impegnati a ricorrere al potere coercitivo dello Stato. Anzi, io stesso fornisco degli argomenti contro il ricorso al potere statale per realizzare provvedimenti di carattere antinatalistico.
GIULIO GIORELLO — Leggendo Meglio non essere mai nati si può avere l’impressione che il dolore di venire al mondo ci faccia concludere che nessuna vita sia degna di essere vissuta. Ma se è così, perché lei formula in varie pagine un rifiuto radicale e morale del suicidio?
DAVID BENATAR — La locuzione «una vita degna di essere vissuta» è ambigua: oscilla tra il senso di «una vita degna di cominciare» e quello di «una vita degna di continuare». Ma non ne segue affatto che, per ciò stesso, nessuna vita non sia degna di continuare! La ragione, forse ovvia, è che, mentre noi non abbiamo alcun interesse nel venire all’esistenza, una volta che esistiamo abbiamo interesse a non smettere di esistere. Perché ci appaia legittimo il suicidio, la cattiva qualità della vita dovrebbe allora sconfiggere quel forte interesse a continuare l’esistenza! E capita talvolta che le cose vadano proprio così. Ma non per tutti e non per tutto il tempo. Aggiungo che, poiché questo capita alcune volte, mi è lecito negare che il mio rifiuto del suicidio sia «radicale». In certe circostanze, infatti, ritengo «moralmente» ammissibile il suicidio: anzi, mi pare tale in più circostanze di quelle in cui la maggioranza delle persone sarebbe disposta ad accettarlo.
GIULIO GIORELLO — Mi sembra che lei dia per scontato che la presenza del dolore sia sempre un male e l’assenza del dolore sia sempre un bene. Ma che dire del caso in cui ci si trovi di fronte a una madre che in piena libertà sceglie di far nascere i propri bambini pur al costo di una dura sofferenza? Li amerà e ne sarà riamata, e quella sofferenza acquisterà un senso per lei e per loro. Oppure, pensi al tipo di gioia che prova un atleta che vince una competizione solo con un allenamento lungo e doloroso...
DAVID BENATAR — Il mio punto di fondo è che sempre la presenza del dolore sia intrinsecamente un male. Non nego, con questo, che il dolore possa avere dei vantaggi estrinseci. Analogamente, mentre il piacere è intrinsecamente buono, può avere qualche svantaggio estrinseco. Tuttavia, dovremmo prendere in considerazione un mondo possibile in cui partorire un figlio o vincere una competizione hanno tutta la gioia e il godimento che abitualmente ci danno ma senza alcun dolore, alcuna sofferenza. Un mondo del genere sarebbe molto migliore del nostro.
GIULIO GIORELLO — In un passo del libro lei scrive che «possiamo senza dubbio immaginare una società in cui la non procreazione sia largamente (se non universalmente) assicurata senza invadere la privacy». Un modo di realizzarla si avrebbe «se si potesse distribuire una sostanza contraccettiva sicura e altamente efficace (…) senza il consenso degli individui – per esempio, nell’acqua potabile o mediante la diffusione aerea». Insomma, ecco «una società in cui la procreazione potrebbe venir evitata in modi (…) dolci e discreti». Ma non è questa una sottile malizia, più «orwelliana» di qualsiasi dittatura, tipo quella descritta da George Orwell in 1984?
DAVID BENATAR — In realtà, ciò che intendevo dire in quelle pagine era che distribuire anticoncezionali nell’acqua potabile o mediante la diffusione aerea «eviterebbe l’orrenda immagine di una sorveglianza orwelliana o le sterilizzazioni e gli aborti forzati, eccetera». In altre parole, mi limitavo a dichiarare che tali dolci intrusioni non raggiungevano il livello di uno Stato pienamente orwelliano. Ma ciò non significa che io sia favorevole a questa clandestina somministrazione di anticoncezionali. Anzi, ho argomentato specificatamente anche contro tali intrusioni meno dure.
GIULIO GIORELLO — Ritorno a un tema che mi pare nel libro di capitale importanza. Nelle ultime pagine, lei critica il suicidio per il fatto che produrrebbe sofferenza a parenti e amici. Ma chi si trova ormai posseduto dal «male oscuro», che lo rende indifferente a qualsiasi stimolo che venga dal mondo esterno o dal suo stesso mondo interiore, non «sente» più nemmeno qualsiasi vincolo con amici e parenti...
DAVID BENATAR — Riconosco che il mio giudizio sul suicidio è un giudizio appunto morale, un giudizio che il suicida forse tende a cancellare. Ma quel giudizio è morale proprio perché tiene conto anche delle sofferenze altrui.
GIULIO GIORELLO — Sofferenze di parenti o amici di colui che soccombe a quel male. Dunque, lei prende atto che l’amore esiste. E allora, come ignorare che l’amore per i propri figli può essere uno dei maggiori ed effettivi piaceri, uno che lei, però, sarebbe disposto a negare alle persone che vorrebbero riprodursi?
DAVID BENATAR — L’amore dei familiari e degli amici è l’unica ragione per cui ritengo che il suicidio non sia sempre l’opzione più giusta. Ovviamente, non nego affatto che esista l’amore. E neppure nego che i genitori amino i loro figli. Mi limito a sostenere che i benefici che i genitori ricavano dal mettere al mondo figli che poi ameranno (e ne saranno riamati) non supera gli enormi svantaggi che questi ultimi subiranno nel corso della loro esistenza. A mo’ di chiarimento: se siamo disposti a riconoscere che a un sadico dia grande piacere infliggere dolore ad altre persone, non significa negare l’esistenza di quel piacere e aggiungerei subito che esso non giustifica affatto tale sofferenza.