La Lettura, 2 dicembre 2018
«Il primo re», Romolo e Remo in un film girato in latino
«Un paradosso sì. Il nostro mito fondativo non è stato trattato dal cinema che, invece, ha costruito un filone ricchissimo sulla narrazione dell’antica Roma. È stata questa la spinta iniziale: era il momento di provare a calare lo spettatore nel Lazio dell’VIII secolo a. C. tenendoci più lontani possibile dall’estetica classica del peplum alla Ben-Hur, immaginando di raccontare, invece, la fondazione dell’impero a partire proprio dal mito come se fosse vero. Alla pari di un film d’avventura, abbiamo reinterpretato in chiave realistica ed emotiva la leggenda dei gemelli Romolo e Remo». Matteo Rovere ha dedicato più di due anni come regista, sceneggiatore e produttore a questo progetto molto ardito e il risultato, Il primo re, arriverà in sala il prossimo 31 gennaio. Un film d’azione, ad altissimo budget per un prodotto italiano (8 milioni), interamente girato in latino arcaico, destinato a uscire solo in versione originale con i sottotitoli.
Parla di nucleo emotivo del mito. Cosa intende?
«Siamo partiti dalle narrazioni degli storici classici, Tito Livio e Plutarco su tutti, del mito di Romolo e Remo. Due persone che la natura e il sangue legano in maniera indissolubile e che vivono un’avventura: la ripresa di Alba Longa, l’uccisione di Amulio e l’esodo verso una nuova terra dove viene fondata una nuova società, edificata, come dice Plutarco, sull’inclusione degli assassini, estendendo la cittadinanza a quanti erano raminghi, privi di una patria, apolidi. Dietro tutto questo c’era qualcosa di profondamente cinematografico, cioè il sentimento di due fratelli coinvolti in una grande avventura di salvezza, in cui devono proteggersi l’un l’altro in un mondo duro e pericolosissimo e questo destino li porta al più classico degli elementi fondativi, ovvero l’uccisione del fratello, come Caino con Abele. Mi sono chiesto: se questa leggenda fosse stata vera, che avventura ne sarebbe risultata? Non entriamo nel dibattito sulla fondazione, lo trattiamo come se fosse vero, ne rispettiamo le regole».
Un precedente cinematografico c’è, «Romolo e Remo» di Sergio Corbucci del 1961.
«In piena stagione dei peplum, è una riproposizione della leggenda classica, gemelli e lupa. Noi siamo agli antipodi del peplum e trattiamo il mito come fosse realtà. Se tutto ciò fosse vero e noi volessimo ricostruire un periodo in cui la vita non vale nulla, dove due fratelli pastori vengono rapiti e portati ad Alba Longa e dovessero trasformarsi in soldati e questa straordinaria vicenda gli si parasse davanti, come sarebbe questo racconto?».
Secondo l’attore Alessandro Borghi, che interpreta Romolo – mentre Alessio Lapice è Remo – siamo davanti a «un film fisico, pieno di duelli e di battaglie, ispirato a pellicole come “Revenant” e “Bravehart” o come “L’ultimo dei Mohicani”».
«Il film è l’avventura di due ragazzi e una donna, una vestale, insieme per salvare il fuoco sacro e portarlo al centro di Roma. Loro non sanno di avere questo destino, ma piano piano acquisiscono consapevolezza del loro compito. I riferimenti cinematografici sono quelli; ed è anche più vicino alle atmosfere del Trono di Spade che a quelle di Ben-Hur. Racconti epici della cinematografia contemporanea, avventure umane ed emotive, persone alle prese con un destino più grande di loro. Tutto molto spettacolare, da godere al cinema».
Come avete lavorato sul latino arcaico?
«Da regista ho sempre avuto come obiettivo quello di calare lo spettatore nella realtà delle storie che propongo. In Veloce come il vento c’era il dialetto romagnolo, la lingua dei motori. Qui non potevamo girare in italiano. Con un gruppo di semiologi dell’Università La Sapienza abbiamo fatto un lungo studio sul latino fondativo, pre-romano. Un lavoro molto appassionante di costruzione di una lingua che prende le parti di latino arcaico dalle fonti che ci sono pervenute: epigrafi, scritte sulle tombe, fibule... Non esiste una stele di Rosetta del latino arcaico... Dove ci mancavano i filamenti, come fosse stato il Dna di Jurassic Park, abbiamo innestato l’indoeuropeo, che è una lingua di codice, non è stata realmente parlata in qualche regione ma è una sorta di lingua di base dalla quale un po’ tutte quelle del ceppo indoeuropeo si sono dipanate. Un lavoro di ricerca e ricostruzione fonema per fonema. Questo crea una lingua incredibile estremamente eufonica che ci porta alle radici dell’Europa, come una lingua madre».
Un’ipotesi di lingua?
«Certo. In fondo anche il latino di età romana, pur avendo moltissime fonti scritte, non sappiamo com’era pronunciato. La nostra ipotesi ha creato una sorta di lingua madre, una lingua della fondazione. Che aiuta lo spettatore a calarsi nella realtà del film, un film d’azione – ripeto – molto ritmato, non basato sui dialoghi. Era un periodo molto fisico, d’altronde, poco retorico. Temevo che la lingua potesse essere un ostacolo per gli attori, invece è successa una magia. Non hanno imparato a memoria le battute, ma, mi hanno detto tutti, hanno imparato la lingua, la costruzione. Per loro molto sfidante, per gli spettatori non ci sarà nulla di difficile».
Accanto ai due fratelli c’è una vestale, Tania Garribba.
«Avevano un ruolo fondamentale. Anche ad Alba Longa il fuoco era il cuore pulsante, era la manifestazione reale e concreta della divinità. La vestale aveva un compito terribile, tenere acceso il fuoco, pena la morte, seppellita viva con poco cibo accanto e una candela. Dal momento che lei stessa era manifestazione del Dio, gli uomini non avevano il coraggio di ucciderla, il Dio ne avrebbe deciso la sorte. Romolo e Remo cercano di prendere il fuoco anche se all’inizio non sanno esattamente cosa farne. Confidano che li proteggerà».
È facile immaginare che lei e i suoi co-sceneggiatori, Filippo Gravino e Francesca Manieri, veniate da un background di studi classici.
«Sì. E abbiamo scritto il copione liberamente, ma dopo aver studiato tutte le fonti possibili sulla fondazione di Roma e l’elaborazione del mito, dai primi autori di età romana e greca, Plutarco e Livio, fino alla storiografia recente. Il risultato è un racconto realistico, carne e sangue, decisamente poco sovrannaturale».
Chi sono i due gemelli ai vostri occhi?
«Il film esplora soprattutto il punto di vista di Remo: mi interessava il fatto che nella storia ci fosse un grande sconfitto, Remo, perché è Romolo a uccidere il fratello e fondare Roma. Sono partito da un sentimento antitetico: nella prima sequenza troviamo i due fratelli che fanno di tutto per salvarsi la vita a vicenda, testimonianza di un forte rapporto embrionale. Che cosa accade per arrivare a quell’epilogo? Remo ha un carattere molto forte, è un tipo fisico, duro e tosto. Un buono che ha come unica debolezza la protezione del fratello. Romolo è più pio, legato al Dio, intimorito dal fuoco sacro; ma è quello che compie le svolte decisive, le scelte che portano aventi la storia»
E la lupa?
«Aspettate di vedere il film».