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 2018  dicembre 02 Domenica calendario

Intervista a Stefano Massini

«A volte si pensa che chi usa tante parole ti stia fregando; e, quindi, che più sei spartano nel parlare, più sei onesto: ma non è vero». Servono parole, «certe parole», dice Stefano Massini, drammaturgo rappresentato sui palcoscenici di tutto il mondo (da quello del Piccolo Teatro di Milano, di cui è consulente artistico, a quelli di Broadway e Londra) e tradotto in ventiquattro lingue (la sua Lehman Trilogy è un successo globale), scrittore (suoi il caso letterario del 2016, Qualcosa sui Lehman, e poi L’interpretatore dei sogni, dedicato a Freud) e anche volto televisivo (a Piazzapulita, su La7). Solo chi è abituato ad avere molto a che fare con le parole, del resto, può scrivere un Dizionario inesistente (Mondadori, pagg. 212, euro 19), in cui compaiono termini come annonismo, birismo, mapuchare, fusagìa, telegramico, caransèbico, morosinità: «Un libro che mi rappresenta moltissimo, per la voglia di divertirsi con le parole e, anche, di riappropriarcene» spiega lui, al telefono dalla Toscana.
Le parole non ci appartengono?
«Il fatto è proprio questo: le parole non appartengono a tutti noi. Impariamo a parlare perché ce lo insegnano i genitori, che sono adulti. E a scuola prosegue l’insegnamento. La sensazione è che la lingua sia qualcosa che ci precede, qualcosa degli adulti, che venga passata, come una convenzione, da chi c’è prima a chi viene dopo. Una cosa seria».
Invece?
«Invece il linguaggio è un gioco: è un bisogno profondo e viscerale dell’umanità, quello di inventare le parole. Un gioco che facciamo da sempre. E che serve per dire come ci sentiamo, che cosa proviamo, di che cosa abbiamo bisogno».
Lei dice anche di più: che il linguaggio è tirannico, è una gabbia.
«Assolutamente sì. Ogni linguaggio ti aiuta a comunicare quello che senti, però ti vincola: ti dà le definizioni per alcune cose, ma non per altre, soprattutto alcuni stati d’animo».
Per esempio?
«C’è una popolazione eschimese che non ha la parola rabbia: per la loro cultura è qualcosa di così sporco che non c’è il vocabolo che la definisca. È lo stesso per noi, solo che non ce ne rendiamo conto: il nostro linguaggio sorvola su molte cose, complicandoci la vita».
Così ha pensato di inventarsi le parole da solo?
«E l’invito è a seguire l’esempio. Io ho inventato delle parole che definiscono alcuni stati d’animo, e l’ho fatto a partire da racconti, storie vere, a volte divertenti. Del resto già esistono parole, come stakanovista, che nascono da casi di persone specifiche».
Come ha iniziato?
«Sulla scia di una esperienza in tv, dopo una puntata in cui raccontavo la storia di questo ammiraglio veneziano che, dopo un assedio lungo 23 anni e costato 180mila morti, in cui riuscì a difendere Creta dagli ottomani, decise di dire basta. Così è nata la parola: morosinità».
Che cosa ci dice Morosini?
«Beh, esistono molte parole per elogiare chi resiste, nonostante tutto; ma nessuna per la virtù di chi si rende conto che da certe battaglie estenuanti, e inutili, è meglio tirarsi fuori. Dopo ho ricevuto moltissimi messaggi e lettere di persone che mi ringraziavano».
È sicuro che ci manchino le parole? Sui social ne siamo sommersi.
«È vero. Ma ci mancano certe parole: e lo sforzo per creare quelle giuste è sempre importante. Il problema è quando parliamo per il gusto di farlo, o usiamo le parole in modo preconcetto, o quando le parole non sono figlie di quello che sentiamo, bensì sono copiate, ripetute per ottenere i like... Parole che nascono per essere accattivanti».
Non vanno bene?
«Accattivare significa fare prigionieri. Invece ci sono parole che esprimono qualcosa di noi, e sono liberanti. Anche chi ascolta si riconosce in esse, e si sente meno solo».
La sua parola preferita?
«La prima del libro, annonismo. Dalla località di Annonay, dove i fratelli Montgolfier fecero il loro primo esperimento di volo; ma non ebbero il coraggio di salire loro stessi sulla mongolfiera, e così a bordo misero un gallo, una capra e un’oca. Mi ha fatto riflettere: avevano aspettato e lavorato così tanto per quel momento eppure, quando ci sono arrivati, hanno avuto paura di andare fino in fondo. Una sensazione che ho provato spesso».
Altre affinità?
«Mi piace molto villanismo, che racconta come Leonardo da Vinci si ostinasse a fare attività in cucina, nonostante i risultati catastrofici. La sua cuoca si chiamava de Villanis».
C’è anche faradiano, dal fisico Faraday.
«Un genio, che si sentì sempre un cameriere. La società spesso è ostinata a non riconoscere quello che abbiamo diritto di reclamare; e quindi i nostri primi sponsor dovremmo essere noi stessi».
E zeissiano, dall’ottico Zeiss, un mago dei microscopi?
«Vedo e sento un proliferare di scuole di pensiero per cui bisogna pensare e progettare in grande; lui fece l’opposto: dedicò la sua ricerca al guardare in piccolo, e dentro le cose piccole. Un bel ribaltamento».
Che cos’è il liarismo?
«Viene da un impressionante personaggio della storia inglese, una specie di Alberto Angela di fine ’800, un divulgatore bravissimo e stimatissimo, che raccontava storie meravigliose della Guinea, dove era anche stato catturato dagli indigeni».
E poi?
«Poi si scoprì che era un impostore e che le sue storie erano tutte false. Fu lasciato da solo, ma poi la gente sentì la mancanza delle sue storie, perché erano belle: così lui si riciclò a raccontarle in uno spettacolo teatrale, King Liar.
Alla fine predichiamo sempre l’importanza della verità, ma a volte ci servono delle menzogne. Ai bambini raccomandiamo di dire il vero, ma a scuola leggono la Divina commedia, un libro inventato da un signore che racconta di essere stato all’Inferno, in Purgatorio e in Paradiso...».
Le menzogne ci salvano?
«Non tutte le menzogne sono cattive: ci sono menzogne che si chiamano arte, e sono irresistibilmente belle».
Che legame c’è fra la finanza dei Lehman, i sogni di Freud e le parole inesistenti?
«Un legame forte. Nei Lehman, i personaggi sognano continuamente, fanno incubi: amo investigare la vita onirica. Per Freud, il linguaggio è sempre collegato alla nostra psiche: ogni volta che pensiamo e viviamo qualcosa, lo facciamo sulla base della griglia del linguaggio e di come ci è stato insegnato. E, a volte, è insopportabilmente limitativo».
Le parole tirano anche fuori quello che è nascosto?
«Assolutamente sì. È molto più mostruoso e pauroso avere a che fare con un’incognita, che non con ciò che chiamiamo per nome. Chiamare le cose per nome è fonte di salvezza».
È vero che lei scrive in bicicletta?
«Verissimo. La parola scritta per me nasce a contatto con il mondo e le persone, che vedo mentre pedalo: solo così mi viene voglia di scrivere».
Come fa in concreto?
«Mi vengono in mente non solo le idee per il libro, ma anche quelle per strutturare ogni capitolo, e le singole pagine. Mentre sono in bici registro sul telefono e poi, una volta a casa, sbobino. Quando scrivo un libro vado in bici ogni giorno».