il Giornale, 2 dicembre 2018
L’arte concettuale non si falsifica. Ecco la mia verità su De Dominicis
È incredibile. Con tanti danni e furti al patrimonio artistico italiano, quella stessa procura di Roma, eterno porto delle nebbie che, dopo reiterate denunce e presidi di «Italia nostra» e miei, con i documenti dell’anno di costruzione (1930, cioè 88 anni fa) del Villino Naselli in via Ticino a Roma, nel comprensorio del quartiere Coppedè, non fece nulla per impedirne l’abbattimento (neanche fosse stata proprietà dei Casamonica), ora, sulla base di un esposto di un avvocaticchio, autoproclamatosi senza titoli esperto unico universale di un artista misterioso e ribelle come Gino De Dominicis, ha incriminato i suoi migliori amici, come il rigoroso critico Duccio Trombadori, il grande gallerista Pio Monti e me, per avere partecipato alla insensata impresa di falsificare 250 opere, tutte rigorosamente autentiche.
Come può accadere che le energie e le risorse dello Stato siano spese in modo inutile, occupandosi di un caso inesistente e di un artista che, non essendo Morandi o de Chirico o Schifano, nessuno ha interesse a falsificare e la cui attività conosciuta, oltre a molte opere concettuali e performatiche (vedi la Mozzarella in carrozza, una vera mozzarella su una carrozza, o il proprio annuncio funebre, o la registrazione di una risata, o un’asta sospesa a mezz’aria, o un gigantesco scheletrone: tutte opere immateriali, nel suo spirito più autentico), muove dagli anni Settanta, e ha quindi uno sviluppo inferiore ai cinquant’anni, quando un’opera entra nel perimetro di interesse degli organi di tutela dei beni culturali? Prima non è: il tempo non ha ancora garantito il suo interesse storico e artistico. Resta che De Dominicis, massacrato per il suo provocatorio dilettantismo, per esempio, da Eugenio Montale, che mai l’avrebbe considerato un artista, ma un paradossale performer di cattivo gusto, è un artista considerato. Quindi. Non per questo degno di interesse, se non di uno sparuto e sofisticato gruppo di collezionisti, che non giustificano in alcun modo la produzione di falsi. Falsi di che, poi? Di idee? Di trovate? Di nasoni? Di scheletroni? Certo non di quadri.
Quando nel 1998, vent’anni fa, Gino misteriosamente muore (e quest’anno soltanto io ne ho celebrato l’anniversario della scomparsa in palazzo Riso a Palermo con una mostra delle opere del suo più grande collezionista, Luigi Koelliker, cui sono stati sequestrati 60 originali come se fossero falsi, sulla base della denuncia di chi non le aveva mai viste), un gruppo di amici si riunì in una associazione per tenerne viva la memoria. Eravamo tutti esperti, tutti storici o critici d’arte: Maurizio Calvesi, Alberto Boatto, Francesco Villari, Duccio Trombadori e io, con un avvocato amatore e collezionista, Italo Tomassoni, critico d’arte dilettante. Di ognuno di noi si conoscevano gli studi e le competenze, di Tomassoni soltanto l’adorazione per l’artista quasi oggetto di un culto religioso o di rituali para-massonici. Così ci si riuniva, e per dire la dimensione anticulturale e fanatica propria di una setta, il sacerdote (Tomassoni) ci chiedeva di stabilire una regola per vietare, a danno della conoscenza, la pubblicazione di fotografie negli studi sull’artista. Io stesso ne fui vittima in una mostra prodotta, in qualità di assessore, in Palazzo Reale a Milano, essendo costretto a pubblicare una pagina bianca dove era prevista l’immagine dell’opera esposta di Gino De Dominicis, tra l’altro di proprietà pubblica. Con il tempo queste riunioni si fecero sempre più paradossali e inutili, fino alla grave scorrettezza di indicare, come curatore della mostra di inaugurazione al MAXXI di Roma, un critico esterno all’associazione e inviso di Gino De Dominicis: Achille Bonito Oliva, per solitaria decisione di Tomassoni, e senza aver consultato gli altri membri dell’associazione, ritagliandosi uno spazio nella curatela per accreditarsi, senza avere titoli, se non amorosi e affettivi.
Così si autogenera un mostro. Io iniziai a disertare quelle inutili riunioni, come altri indispettiti membri, soprattutto Trombadori e Villari. Ma quando, sul piano della ricerca e non del mercato, non proponendo opere dell’artista ma cercando di rintracciarle, si istituì la Fondazione/Archivio De Dominicis da me presieduta, con garanti critici e amici di Gino e la sua compagna-assistente, destinataria per testamento di alcune sue opere, io non uscii, come non sono uscito, dalla Associazione, nonostante il tentativo di scioglierla per fondare una istituzione parallela, da Tomassoni solo governata, con una cugina totalmente estranea alla materia e teleguidata. Si passava quindi da un organo collegiale a una Fondazione votata all’inventario delle opere, a un vero e proprio commissariamento, sotto l’esclusiva guida di una parte interessata al controllo totale del mercato. Su questo infatti si celebrò la rottura, insensatamente revocando in dubbio, senza conoscerle, circa la metà delle opere di un grande collezionista come Luigi Koelliker, tra le quali una Calamita cosmica che lo stesso artista aveva con le sue mani montato in casa mia a Palazzo Pamphilj in Via dell’Anima a Roma, a ottanta metri da casa sua. La nostra intrinsichezza, a Roma come a Venezia, era assoluta, ma non determinata dal fanatismo. Si può anzi dire che la Fondazione è nata per conoscere opere sconosciute appartenenti a collezionisti, al di là del mercato, e preparare un catalogo.
L’inchiesta nasce dalla denuncia dell’erede di De Dominicis, pilotata da Tomassoni, che non è riuscito a piazzare nessuna opera presso il grande collezionista Luigi Koelliker e decide quindi, a priori, di dichiarare false, non si capisce da chi contraffatte, perché di fonti diverse, le opere comprate da diversi mercanti, tutte buone e documentate. A smentire l’idea di una insensata proliferazione di falsi sono le varie provenienze delle opere. La gravità dell’errore del magistrato e l’infondatezza dell’indagine dei carabinieri sono confermate dal fatto che essi, senza avere alcuna idea del valore estetico di Gino De Dominicis che, nel 1972, espose, fra mille critiche, un mongoloide alla Biennale di Venezia, definiscono una ipotesi di reato relativa alla contraffazione impossibile di opere che sono essenzialmente concetti, riconosciuti da una Fondazione che non ha finalità commerciali. Non si tratta dunque di oggetti certificati per essere immessi nel mercato, ma di pensieri e idee di De Dominicis, già appartenenti a collezioni e sui quali la stessa Fondazione, senza finalità commerciali, ha espresso, con libero convincimento, autentiche, secondo la consuetudine di esaminare le fotografie. Documentato è invece che la dichiarazione di falsità delle opere della collezione Koelliker da parte del signor Tomassoni, sedicente esperto, è avvenuta senza esaminarle neanche in fotografia. Peraltro, avendo meno di cinquant’anni le opere di De Dominicis, o a lui attribuite, non rientrano nel patrimonio tutelato dal Codice dei beni culturali, che non contempla opere la cui esecuzione non risalga oltre i cinquant’anni. Chi può’ indicarne lo status di opere d’arte? In questa materia scivolosa, e non garantita dalla riposata distanza del tempo, chi ha il compito di stabilirne l’autenticità? E come può essere messa in dubbio l’abilitazione di una Fondazione, e del suo presidente, a farlo, senza infamanti accuse di inesistenti finalità commerciali, sommamente lesive della dignità critica e di giudizio?
Il presidente, inoltre, in quanto parlamentare, la cui onorabilità è gravemente minacciata dall’inchiesta del pubblico ministero e dalle indagini dei carabinieri, ha legittimo diritto di invocare, in nome dell’articolo 68 della Costituzione, l’insindacabilità delle sue opinioni, su cui poggia anche la sua credibilità politica. E non è consentito, senza alcun elemento probatorio e sulla base delle perizie (altri elementi non vi sono), a nessun magistrato accusarlo di affermare e dichiarare cose non corrispondenti al suo libero convincimento. Io rivendico l’insindacabilità delle mie opinioni, e ritengo gravemente offensivo e diffamatorio l’essere compreso, con l’ipotesi di reato, nella fattispecie indicata al comma c) dell’articolo 178 del codice dei Beni culturali: «chiunque, conoscendone la falsità, autentica opere od oggetti, indicati alle lettere a) e b) contraffatti, alterati o riprodotti; chiunque mediante altre dichiarazioni, perizie, pubblicazioni, apposizione di timbri od etichette o con qualsiasi altro mezzo accredita o contribuisce ad accreditare, conoscendone la falsità, come autentici opere od oggetti indicati alle lettere a) e b) contraffatti, alterati o riprodotti».
In quel «chiunque» io non mi riconosco; e nessuno si può permettere di riconoscermi, non avendo io alcuna intesa commerciale con altri (peraltro ingiustamente indagati). Non esiste elemento, o dichiarazione, che possa far ritenere che io conoscevo la asserita falsità delle opere di De Dominicis da me certificate. Implacabile e irrevocabile mia convinzione è che non esistano falsi di De Dominicis, che non ne esista un falsario e che, per il limitatissimo mercato dei suoi collezionisti, non abbia alcun senso falsificarne le opere. Tutti i collezionisti e mercanti possono dimostrarne la sempre legittima provenienza. Ed è indispensabile garantire l’assoluta libertà e legittimità della funzione critica, che poggia sulla credibilità del perito, in questo caso violentemente messa in dubbio dall’inchiesta.