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 2018  dicembre 02 Domenica calendario

Intervista a Renato Pozzetto

Al solo nominare Jannacci (ogni volta) gli occhi si arrossano e la concentrazione è tutta per cercare di limitare ricordi e lacrime.
Milano, pasticceria Gattullo, in fondo alla sala, davanti all’ultimo di una serie di tavolini tondi, Renato Pozzetto detta i confini del tempo: “Vengo qui da cinquanta e passa anni. Un punto di ritrovo per tanti di noi, una prima scuola di amicizia, arte e vita. Guardi la foto attaccata al muro”. E indica un bianco e nero d’annata pieno di colore per i sorrisi dei giovani protagonisti: Umberto Bindi, Bruno Lauzi, Cochi Ponzoni, Sergio Endrigo, Augusto Martelli, Giorgio Gaber. E poi lui, Renato Pozzetto, in piedi accanto al suo Enzo Jannacci. “Quanto ci siamo divertiti, nessun orario, giorno prefissato, la fantasia e la sperimentazione senza limiti di contaminazione. Ed Enzo un genio, e oggi più ci penso, più mi manca, e più mi rendo conto del suo livello assoluto, condiviso con una normalità pazzesca”.
La stessa normalità espressa dalle parole e dai gesti di Pozzetto, un uomo di 78 anni ben portati, vestito con abiti giovanili senza risultare forzatamente giovanile, una decisa consapevolezza del proprio ruolo, senza strabordare, e una timidezza ben celata, svelata solo alla fine di un lungo cappuccino (decaffeinato) e qualche pasticcino.
Del gruppo storico, chi le manca maggiormente?
(Cambia sguardo) Enzo. È raro e speciale quando nella vita nasce un rapporto così forte con le persone che stimi; stare con lui è stato un culo incredibile, accanto a lui ti nutrivi, ti volevi bene. Poi inventava situazioni uniche. Solo lui.
Lei lo seguiva.
Una volta d’inverno mi portò in barca a vela all’Idroscalo, e con un atteggiamento misto a sicurezza e allegria; io incerto: “Enzo sei sicuro di voler uscire? Non sei esperto”. Macché, un sorriso, e via…
Alla fine?
I classici e ovvi problemi a tornare, ma non importava, era bello stare insieme, e l’aspetto straordinario è proprio quello di aver vissuto delle situazioni uniche, con modi normali. Oggi capisco.
I sapori della vita…
Anche il sapore delle polpette cucinate dalla madre con all’interno una caramella.
Caramella metaforica?
Reale. “Renato, a mamma piacciono e le ha cucinate per te”. Zitto, inforchettavo.
Insomma, tutti in pasticceria.
È stata fondamentale pure l’osteria: ci ritrovavamo lì per cantare, bere un bicchiere di vino, magari offriva chi quel giorno aveva guadagnato qualcosa; io e Cochi (Ponzoni) inventavamo le canzoni o suonavamo quelle popolari; il pubblico si divertiva e scattava una festa non prevista.
Con voi alcuni grandi artisti del tempo.
Perché aprirono una galleria d’arte notturna: quello spazio divenne un’appendice dell’osteria, Piero Manzoni e Lucio Fontana si mischiavano ai vari Jannacci, Giorgio Gaber, Dario Fo: quella Milano che si muoveva in cerca di luoghi oltre l’orario canonico, la città che viveva di notte.
E poi?
Lo stesso proprietario della galleria decise di inaugurare un cabaret: il nostro primo vero palco.
Quanti spettatori?
Una ventina al massimo.
Il più bravo di allora?
Bruno Lauzi, ma era già affermato; poi Lino Toffolo… (si ferma). Io e Cochi abbiamo iniziato anche per disperazione, d’estate ci annoiavamo, non sapevamo come impiegare le giornate.
Mai stato comunista?
Cantavamo le canzoni di libertà e lavoro, e con quelle giravamo per i circoli operai milanesi; e il proprietario della galleria era un anarchico, quindi conoscevamo pure quel tipo di repertorio.
Contaminazione, parola d’ordine. 
Inevitabile quando vivi una realtà del genere: quel gruppo di artisti ci ha regalato una assoluta libertà di pensiero e azione, più una profondità di riflessione che nessuna scuola di teatro sarebbe stata in grado di trasmetterci.
Manzoni è morto a 29 anni.
Beveva forte, si faceva del male… un giorno l’abbiamo aiutato per una delle sue opere: una riga lunga un chilometro, realizzata su un rotolo di carta del Corriere della Sera.
Percepivate il suo genio?
Non in particolare, ma perché eravamo amici, così con Lucio Fontana e più interessati a condividere: lo stesso Cochi andava da Gaber e gli offriva delle lezioni di chitarra. Siamo stati fortunati.
Nei primi anni Settanta ha lasciato Milano per il cinema e Roma. 
Sono partito con le valigie di cartone e l’angoscia per l’addio a Cochi, ma grazie al primo film ho vinto il David di Donatello.
Debutto fortunato.
È servito pure per i miei amici: ho aperto una strada al gruppo di allora e in qualche modo ho fatto pace con me stesso.
Ci ha messo molto per prendere quella decisione…
Discussa col gruppo, e lo stesso Cochi stupendo nel tranquillizzarmi: “Renato, se la cosa ti convince, vai”.
Anche Jannacci?
No, lui derubricò la questione a un semplice: “Stai facendo una cagata”.
Caratterino.
Lo ascoltavo in modo profondo. Con lui sono cresciuto.
Il suo viso al funerale di Jannacci racconta molto.
Non ricordo bene quei momenti, ho galleggiato con la mente verso immagini collettive sparse nel tempo, e dentro al tempio della nostra amicizia; poi riflettevo sugli ultimi tempi…
Cosa, in particolare.
Agli amici che erano andati a trovarlo in ospedale, mentre a me il divieto: “Non voglio farmi vedere in questo stato”. Lo avevo rispettato.
Jannacci come giudicava il suo cinema anni Ottanta…
Tanti film potevo evitarli.
Lo dice lei o lui?
Lui allora, io oggi; ho lavorato con tanta brava gente.
Il primo che le viene in mente?
Marcello Mastroianni. Con lui ho girato un film a Napoli, e ho toccato dal vivo cosa vuol dire vivere da vera star: un livello incredibile. Un giorno passeggiamo per la città, accanto a noi passa un pullman, l’autista inchioda, si aprono le porte e scende una frotta di turiste giapponesi che lo assalgono con gridolini e baci. Non lo lasciavano più.
Da aver paura…
E restava una persona tranquillissima, uno vero, splendido: una volta sale sul mio camper, gli dico “resti a pranzo come?”. E lui: “Volentieri, aspetta che prendo una cosa”, e dal cappotto estrae una scatola di fagioli preparati in casa. Da allora, ogni giorno, mischiavamo le nostre provviste, capito? Un divo con i fagioli in tasca.
Cecchi Gori l’ha definita “il re della roulotte”…

Non l’amavo in assoluto, ma per lavoro ero costretto a passarci tantissimo tempo: in 30 anni ho girato 60 film, più altri con piccoli ruoli, e durante le pause cercavo di ritagliarmi dei momenti famigliari, magari la tavola apparecchiata, dei fiori, i tovaglioli di stoffa, un piatto caldo. E il citofono all’entrata.
Il citofono?
Era finto, ma dissuadeva i rompiballe.

Sempre in giro, insomma.
Sì, anche troppo.
Perché?
Ho detto di “no” a tanti copioni, me ne proponevano tantissimi, davanti all’insistenza ripetuta del produttore, mi capitava di cedere.
Ha lavorato con i De Laurentiis…
Il padre molto simpatico.
E Aurelio?
Un po’ meno, e non so spiegare se per differenza di età rispetto a me o semplici incomprensioni territoriali.
Territoriali?
Aveva un modo di porsi diciamo esuberante; io sono sempre stato più nordico negli atteggiamenti, e poi allora non sentivo né avevo l’esigenza di frequentare i produttori per imbonirmeli e magari ottenere altri ruoli o maggiori pose.
Mentre Aurelio.
Si comportava con alterigia, veniva sul set come figlio del boss, cercava di sentirsi adulto oltre il possibile e tentava di seguirmi passo passo nella recitazione e magari modificare qualcosa nel mio stile; al contrario andavo bene come Renato Pozzetto, e ne ero assolutamente consapevole.
Non è un fan dei produttori.
Mica tutti! (Scoppia a ridere) Una volta uno di loro non si è comportato benissimo, anzi. Giravamo d’inverno sul lago di Bracciano, un freddo boia, e dovevo tuffarmi: da copione era prevista la controfigura, ma sentita la temperatura dell’acqua, si rifiuta.
Eroico.
Mi spoglio: “Dai, vado io, sbrighiamoci”, e piazzo l’accappatoio sul cofano acceso della macchina.
Eroico, lei.
Mi tuffo nudo, esco dall’acqua ultra intirizzito, e mi copro.
Quindi?
Giorni dopo su un settimanale esce un servizio su di me nudo, con il titolo “Renato Pezzetto”, alludendo a delle scarse doti nelle parti basse. Il produttore aveva cercato pubblicità a ogni costo.
Lei si è anche pentito di aver girato Le comiche.
Film lontani dalla mia grammatica comica: ero abituato a lavorare senza trucco, non mi interessavano i costumi, al massimo indossavo un cappello; mentre la forza di Paolo (Villaggio, suo partner nelle due pellicole, ndr) era clownesca, sapeva gestire le cadute a terra, cambiava abito e atteggiamenti.
Lei no.
Ho sempre cercato di recitare con lo stile più semplice possibile, sempre me stesso, e sono stato fortunato nell’ottenere un bel successo senza alterazioni e fatiche, senza i turbamenti di tanti colleghi; per questo non accettavo volentieri le indicazioni dei registi o produttori. Ah, con Paolo siamo stati grandissimi amici.
Ha subito i suoi scherzi?
Con me? Se ci provava lo mandavo a quel paese.
Immune.
Raccontava delle gran balle: proprio all’inizio della carriera mia e di Cochi, ci fece andare due volte a Roma: “Ho qualcosina per voi in televisione”. Non era vero. Alla terza non ci siamo cascati.
Tirchio.
Mica vero, era goliardia: un periodo venne da me sul lago Maggiore (dove da anni Pozzetto ha aperto un resort insieme al fratello): per passare il tempo aveva affittato una barca. Dopo il suo ritorno a casa viene da me il proprietario dell’imbarcazione: “Ha detto il signor Villaggio che mi deve saldare il conto”.
E lei?
“Non ci ho penso proprio”, e ho garbatamente consigliato di chiamare il signor Villaggio… Però lo ripeto, un grande amico: quando con Cochi siamo partiti per Roma per l’esordio a teatro, eravamo preoccupati per le critiche e un eventuale flop di pubblico. Invece Paolo aveva organizzato tutto e tutti: siamo usciti sul palco, in platea c’erano Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman e gli altri amici e colleghi. Un gran successo.
La prima volta in tv.
Insieme a Enzo Jannacci per cantare La gallina con tanto di movimento della gamba…
I suoi genitori cosa dicevano?
Mio padre parlava poco, la sua vita è stata grama, un uomo perseguitato dal ricordo dei bombardamenti, con la casa distrutta; l’unica soddisfazione è stata di riuscire a far studiare i suoi figli, compreso me, diplomato geometra.
Mamma?
Anche lei silenziosa, al massimo poteva dirmi: “Ieri ti ho visto in televisione”. Basta. E poi con loro non parlavo del mio lavoro, non potevano avere gli strumenti per comprendere certe stramberie.
La fama per lei.
Periodo complicato, mi sentivo un militare lontano da casa: non avevo il carattere esuberante di Villaggio, lui usciva sempre, tirava tardi, mentre a me bastava mangiare qualcosa e a letto. E ogni sabato tornavo a Milano da mia moglie
Sempre.
Volevo stare in famiglia, e così era l’unica condizione: lei non ha mai voluto trasferirsi, non era affascinata dal cinema, dal mio mondo professionale.
Il riflettore le manca o le è mai mancato?
Il successo non l’ho mai perso, ancor oggi quasi tutti i giorni trasmettono un film con me, la gente mi ferma, e sono in teatro con uno spettacolo nel quale trasmetto spezzoni dei miei successi e aggiungo dei racconti, e vedo sempre il pubblico ridere dall’inizio alla fine (il 14 dicembre è a Torino al teatro Alfieri, con Compatibilmente).
Bello.
Al debutto mi sono quasi scocciato: seduto in platea, si apre il sipario, viene proiettato il primo spezzone di film, e tutti a ridere.
Di cosa si è scocciato?
Il me sullo schermo lo sentivo quasi un estraneo, e si prendeva più applausi di me.
Renato Pozzetto dentro la storia del cinema, chi è?
Uno che ha ispirato tanti colleghi, e i colleghi hanno preso a piene mani, pure spudoratamente. E ciò mi fa piacere, è un riconoscimento.
“Libidine” di Calà è suo…
In parte è vero, ma non solo mio, è di questo bar: nasce qui, come un’altra serie infinita di espressioni, gag, gioie. Sono un uomo fortunato, questa è la verità.
(Lo ripete più volte e non per convincere e convincersi, ma perché alla fine “la vita l’è bela, basta avere l’ombrela, che ti para la testa, sembra un giorno di festa”).