Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2018
Rittinghausen e le falle della democrazia diretta
Dite “democrazia vera”; dite anche “legislazione diretta del popolo” e vedrete che il pensiero correrà subito a Rousseau. E sta bene. Ma, come spesso per le corse, anche qui c’è qualcosa di troppo sbrigativo e la furia di concludere fa oltrepassare di slancio altri autori i quali pure vogliono essere rimemorati quando si percorre un tale tragitto. Tra questi Moritz Rittinghausen, un socialista renano il cui nome, oggi, non desta grandi risonanze d’eco e che però vide volare alta la sua fama a metà del XIX secolo quando il suo pamphlet La legislazione diretta del popolo, o la vera democrazia (1851) mise a rumore la scena politico-intellettuale dell’Europa intera.
Bravo perciò Fausto Proietti che lo ripropone in traduzione integrale, arricchendolo di un saggio introduttivo che per la solida quadratura dell’impostazione fa cogliere al volo le virtù (pochine pochine) e i vizi (tantoni tantoni) del “direttismo” democratico. Certo, Ritthinghausen non era Rousseau; non ne condivideva la mistica della volontà generale, per esempio. Pure, tra i due corre quella volatile, atmosferica cosa che si chiama “aria di famiglia”. Si dà il caso infatti che per entrambi la politica democratica doveva spogliarsi delle sue rughe e ribattezzarsi a vita nuova. Dove “nuova” significava non già migliorare gli organismi rappresentativi integrandoli con gli istituti della democrazia diretta; non di migliorare integrando si trattava. Ma di superare annullando: superare cioè il principio stesso della rappresentanza sciogliendolo nell’iniziativa popolare e nel referendum. Fate che solo i cittadini abbiano il diritto di proporre le leggi; fate che tutti gli altri abbiano l’obbligo di pronunciarsi con un sì o con un no; fate così, suggeriva Rittinghausen, e avrete aperto la finestra su di un cielo nuovo dove sfavilleranno la generosità e l’intelligenza degli umani.
L’intelligenza? Non diremmo proprio. Pensiamoci un momento. Se io posso soltanto dire di sì o di no (magari con la tastiera di un computer, come nei progetti di democrazia elettronica), se dunque posso solo approvare o respingere in blocco la proposta del mio prossimo, allora avrò perciò stesso chiuso l’adito della discussione; o più precisamente mi sarò negato a quella particolare discussione alla quale partecipo convinto bensì di avere ragione, senza per questo credere che il mio interlocutore abbia completamente torto. Da qui la convenienza di discutere con lui: per setacciare nei suoi argomenti l’ultimo grano di diamante, quel filo d’oro che proprio darà l’estrema ragione alle mie infinite ragioni. Quando invece mi si para dinanzi l’alternativa secca: “o accetti tutto o tutto respingi”, come volete che corregga o modifichi le mie idee sulle idee dell’altro? E se non posso né mediare né negoziare, a che pro discutere? Già, ma la discussione è l’ossigeno dell’intelligenza. Soffocatela e avrete reso gli uomini più stupidi. Si inganna perciò Ritthingausen quando scrive che col referendum «l’intelligente spontaneità delle masse potrebbe risolvere questioni che hanno occupato per secoli lo spirito cavilloso» dei governanti. No, i cavilli (posto che siano la prerogativa delle menti strette) continueranno ad alimentare mille e mille proposte di legge; mille e mille alterchi si disputeranno i singoli. Con questa differenza però (che è anche un’aggravante): mentre prima, per effetto della rappresentanza, erano solo i governanti che armeggiavano tra dispute grandi e piccine, ora il peso cade per intero sui cittadini che perciò dovranno rimodellare ogni giorno, ogni ora della loro esistenza sulla discussione di problemi e sulla cura di affari dai quali un tempo erano esonerati. Col che scatta immediata la domanda: se tutti parlano (o smanacciano sul computer), chi lavora? Quando ognuno deve consacrare ogni cosa alla vita politica, come quando e dove verrà prodotta la ricchezza? Gli antichi avevano risolto il problema con l’attività predatoria delle guerre e con l’istituzione della schiavitù. Oggi, almeno da noi, non ci sono più né guerre né schiavi. Come la mettiamo?
Ecco perché, in tempi di imitazione e di falsariga, pagine come queste di Rittinghausen debbono leggersi con l’occhio un po’ alzato e sempre in controluce: le sue righe spalmate di fosforo valgono più ad abbagliare che a convincere. Se però ficchiamo lo sguardo nel fondo delle cose, allora dobbiamo ben chiedere: ma veramente ci piacerebbe vivere in un mondo stupido e povero? In altri momenti, porre l’interrogativo era già risolverlo. Ma oggi, chi mai tenterà l’azzardo della risposta?