Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2018
A proposito di «Straparole» di Cesare Zavattini
Occasione davvero significativa è la ristampa, nelle edizioni Giunti di Firenze, di Straparole di Cesare Zavattini (libro uscito la prima volta da Bompiani nel 1967). La personalità di Zavattini ha un universo creativo impressionante tra immagine e scrittura, gesto e voce, autobiografia e racconto: in una reciprocità che attraversa cinema, letteratura, pittura.
Le pagine di Straparole si susseguono nell’urgenza, nella materia diaristica, considerando che nello storicismo e nei generi della cultura italiana il diario rimane una rarità rispetto all’opera.
A confermare l’originalità e la diversità diaristica di Zavattini, valga qualche richiamo variamente esemplificativo. Carlo Bo pubblica nel 1945 Diario aperto e chiuso. C’è in queste pagine un alfabeto perdutamente interiore: il tempo esistenziale coincide con il tempo della lettura, lo sfondo seducente dei libri, le intermittenze, il tratto della nostalgia, lo scorrere del tempo.
Nell’orizzonte della letteratura femminile, un verso poetico di Cristina Campo può essere emblematico: «Ora tutta la vita è nel mio sguardo». Rispetto alla spazialità dei linguaggi, lo sguardo è inconscio, memoria, attesa, ciò che è stato amato, ciò che non è accaduto.
Ricordiamo infine l’ultima espressione de Il mestiere di vivere di Cesare Pavese: «Non parole. Un gesto. Non scriverò più».
Zavattini, lungo le pagine, ha un solo modo di ribadire il suo connotato diaristico: «un tritume di nomi di fatti di pensieri», «tanto cartame». In un lascito profondo di umano, di cultura, di sorpresa, di stupore, Zavattini scrive la temporalità, l’eventicità della vita che appare e scompare: un fluire inesauribile nelle infinite pagine bianche, fuori da schemi, da astrazioni intellettuali.
«Il niente non esiste»: fremono luoghi, presenze, volti, parole, ricordi.
C’è una rinuncia al coordinamento della scrittura per una diretta espressione nell’atto vivente del tempo. Nell’orizzonte delle interpretazioni intellettuali, delle situazioni formalizzate, arriva Zavattini a scrivere: «Dateci almeno un errore da difendere».
Nel leggere Straparole, un po’ commuove ritrovare un’affinità con il titolo di un libro di Thomas Bernhard La cantina (pubblicato da Adelphi nel 1984). La cantina è il centro segreto delle voci, dei rimandi, dei tramandi perduti.
Certamente appaiono variamente nomi di riferimenti culturali (De Sica, Germi, Soldati, Rossellini, Ungaretti, Moravia…). Aspetti che hanno un riscontro, come nel cinema, in altre pubblicazioni. Nel connotato diaristico, la pagina è presa dall’intermittenza con il margine improvviso della ferialità. In un mese di novembre, sotto i portici, Zavattini racconta di vedere l’arciprete con la cotta bianca e la stola nera recarsi da una donna mancata. Si leva il basco in segno di raccoglimento. Scrive: «l’arciprete si voltò verso di me dal mezzo della strada e con la sua voce da salmo, gridò, perché era piuttosto lontano, in dialetto: Cesar, si muore, ricordati che si muore».
In un tratto di intima fugacità, Zavattini ferma il momento improvviso, seducente, senza fine delle figure femminili. Nei giorni uguali ai giorni, sono apparizioni.
Sotto un portone, Zavattini vide cadere un fazzoletto dal balcone. Corse a raccoglierlo e a riportarlo su per le scale. Incontra la fanciulla. Le scrisse una lettera «che non ho mai più scritto». Dopo un anno era sua moglie.
Nelle occasioni più diverse, osserva le ragazze che cominciano a uscire di casa, incipriate e si mettono «in mostra sulla strada». A una finestra, nota una ragazza che si ravviava i capelli. Scrive: «Nessuna curiosità mi prendeva, solo il rimpianto di non essere giovane per scrivere a quella fanciulla: ti amo».
Ciò che forse emerge in Straparole è un connotato espressivo che tende al paradosso nel coniugare il visibile e l’invisibile, le parole e il silenzio, la coscienza del reale e la sua “inafferrabilità”.
Zavattini stesso parla della dismisura dei suoi scritti («chino sul pozzo di un migliaio di pagine e più»). Dall’altra parte cade una sua osservazione: «La vita è fatta di quello che si tace». Oltre al dicibile, c’è l’area sconfinata del silenzio, dell’indicibile.
Ricordiamo anche le poesie di Zavattini nel dialetto di Luzzara, paese d’origine. Poesie ammirate da Pasolini. Si riconferma quel tratto dialettico tra il transito della vita e una percezione misteriosa. Quel funerale così povero «che non c’era neanche / il morto nella cassa». Una notte Dio entrò nella sua camera. Gli disse: «faccio sapere che non esisto».
Zavattini ha avuto una grande apertura nell’incontro, nel dialogo, nella corrispondenza. Mi inviò due lettere, battute a macchina. Cito uno stralcio che suggerisce l’orizzonte letterario, l’intuizione dei suoi autori amati: «Intuivo che Pirandello era uno dei pochi scrittori del Novecento partecipi della grande cultura europea, accanto a Joyce (che non ho letto), a Proust (che non letto questo anno) a Kafka ( di cui conosco solo la meravigliosa Metamorfosi) a Musil (che è qui sul comodino e non oso ancora cominciarlo). Ma non sono alibi questi, uno scrittore che si rispetti sa sempre quello che i maggiori hanno fatto, lo vede non sulle pagine ma nell’aria. Che cosa potrei leggere per sapere le idee di Pirandello sul cinema?».