Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2018
Guerra delle proteine, legumi contro carne. L’Europa è in ritardo
Poco più di trent’anni, neanche il tempo di due generazioni, e sulla Terra saremo 9,8 miliardi. Il 30% in più di quanti siamo oggi. Per sfamarci tutti, dicono gli esperti, bisognerà produrre il 60% di cibo in più. Servono miliardi di nuove proteine, per far crescere il mondo. Dove le prenderemo? C’è chi scommette sulle farine di insetti. E chi sull’hamburger impossibile, che della carne ha la stessa consistenza e lo stesso sapore: soltanto cinque anni fa costava 325mila dollari al pezzo, ora una startup israeliana ha annunciato di essere arrivata a 700 dollari, ed è certa di potere scendere ancora di parecchio entro il 2020.
Ad attenderci, in questo futuro prossimo, ci sono anche le proteine vegetali. In termini di amminoacidi, due scodelle di pasta e fagioli corrispondono a 70 grammi di carne. Ma l’impatto dell’allevamento, rispetto a quello della coltivazione di legumi, in fatto di sostenibilità è completamente diverso, e sbilanciato a favore dei secondi. Peccato però che negli ultimi 15 anni il tasso di crescita della produzione di legumi non abbia saputo tenere il passo con la crescita della popolazione e dei consumi: secondo la Fao, tra il 2000 e il 2014 la popolazione mondiale è aumentata del 19%, mentre la disponibilità di legumi procapite è cresciuta solo di 1,6 chili all’anno.
Ma sono le scelte che i governi fanno oggi, quelle che ci ritroveremo nel piatto domani. Così, qualcuno oggi ha cominciato a dichiarare guerra alla carne e a scegliere la via delle proteine vegetali. La Ue è fra questi. Lo ha fatto timidamente, ha cominciato a discuterne in Consiglio nella primavera del 2017, ne ha dibattuto in Parlamento. Ha mandato i suoi più alti funzionari del DG Agriculture in giro per le campagne d’Europa, a raccogliere il parere di contadini e allevatori. E alla fine, dieci giorni fa, alla Conferenza di Vienna, il commissario all’Agricoltura Phil Hogan ha presentato il Piano europeo per lo sviluppo delle proteine vegetali. Dentro non ci sono fondi ad hoc, ma una presa di posizione, un indirizzo: l’Europa è troppo dipendente dalle importazioni di legumi dal resto del mondo, sia quelli destinati all’alimentazione umana sia quelli per i mangimi animali. Ed è quindi necessario aumentarne la produzione interna, per venire incontro alle esigenze dei consumatori di avere un cibo più sostenibile e più salutare.
«Per produrre più legumi servono più ricerca e più supporto tecnico agli agricoltori: i fondi per questo potranno essere presi da Horizon 2020, dal nuovo Horizon e anche dalla Pac», spiega Silke Boger, uno degli alti funzionari del DG Agriculture inviata in giro per l’Europa. Accompagnata da Confcooperative, in Italia ha incontrato sul campo parecchi addetti ai lavori: «Ho capito che anche nel vostro Paese, per via dell’alto numero di Dop, avete l’interesse a proteggere la qualità dei mangimi animali dalla presenza degli Ogm». La soia che oggi l’Italia importa per l’alimentazione animale è tutta geneticamente modificata: se venisse incentivata la produzione nazionale di proteine vegetali, le mescole dei mangimi potrebbero essere diverse e guadagnarne in naturalità.
L’Italia è anche la dimostrazione massima della dipendenza europea dai legumi extra-Ue: secondo uno studio commissionato dall’Alleanza delle Cooperative agroalimentari ad Areté, nel 2017 erano stranieri il 59% dei ceci, il 71% dei piselli, il 95% dei fagioli e ben il 98% delle lenticchie che abbiamo mangiato nel nostro Paese. Negli anni 60 l’Italia produceva 640mila tonnellate di legumi, oggi siamo a 190mila tonnellate.
In Europa la classifica dei produttori vede al primo posto la Francia, con 788mila tonnellate all’anno. Ma non rappresenta che l’1% della produzione globale di legumi: al primo posto, nel mondo, c’è l’India, dove viene coltivato oltre il 17% di tutti i legumi. E al secondo posto c’è il Canada. Che, guarda caso, ha lanciato un suo piano per lo sviluppo delle proteine vegetali. Decisamente più aggressivo di quello europeo: il governo federale di Ottawa mette sul piatto 950 milioni di dollari canadesi in cinque anni per dare vita a un supercluster dei legumi. Un’alleanza fra agricoltori, imprese e centri di ricerca per trasformare una commodity in un prodotto ad alto valore aggiunto: non più il semplice export di ceci e lenticchie, ma la produzione di snack, farine e alimenti complessi con cui invadere i mercati internazionali e conquistare i consumatori consapevoli.
Ce n’è abbastanza, per mettere in allarme l’industria della carne? «Non siamo preoccupati, le previsioni ci dicono che i consumi di carne cresceranno ancora», assicura François Tomei, direttore generale dell’italiana Assocarni. Secondo la Fao, tra oggi e il 2050 si passerà da 268 a 463 milioni di tonnellate di carne consumata nel mondo, una crescita del 173%, concentrata nei Paesi emergenti. «Sulle proteine alternative ci sono anche parecchi miti da sfatare – aggiunge Tomei – a cominciare dal fatto che è la soia, cioè un legume, a essere Ogm, e non la carne. Mentre il cosiddetto hamburger sintetico è un concentrato di chimica che galleggia in un brodo di conservanti e insaporitori. Non ha niente di naturale. I dati più recenti, inoltre, ci dicono che l’esplosione dei prodotti vegetariani sta già rallentando. Anche perché sono costosi». Spesso più costosi della carne.
L’industria della carne dissente anche da chi accusa gli allevamenti di scarsa sostenibilità: «Secondo i dati Fao – ricorda ancora Tomei – il 70% dell’inquinamento oggi è colpa dei trasporti e delle fonti energetiche, e solo il 14% è responsabilità degli allevamenti bovini. Sempre la Fao, che nel 2006 sosteneva la pericolosità degli allevamenti per il futuro del pianeta, ha poi corretto il tiro e nelle ultime pubblicazioni li ha definitivi un’importante fonte di sostentamento per due miliardi di persone». L’allevamento, insomma, specie quello di piccole dimensioni, avrebbe un ruolo chiave nella sostenibilità sociale.