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 2018  dicembre 02 Domenica calendario

A tu per tu con Romano Prodi

«I tempi si sono incattiviti. L’aria è pesante. Quest’estate un automobilista mi ha visto mentre faticosamente pedalavo in salita, ha rallentato, ha tirato giù il finestrino e ha urlato: “Mortadella, hai rovinato l’Italia...”. Un tempo il ciclista, almeno in salita, era sacro. Perfino durante i passaggi più duri della mia contrapposizione a Berlusconi, c’era una sorta di cavalleria sportiva».
Con Romano Prodi sono alla Drogheria della Rosa, sotto i portici del centro di Bologna («Sotto i portici conosci tutti, Bologna è fatta così, quante volte ho incontrato Lucio Dalla, che abitava qui vicino»), un pugno di tavoli e l’oste che intrattiene ogni commensale – non importa che sia l’ex presidente del Consiglio o la segretaria che lavora dall’avvocato o dal commercialista – sulla parete il cartello “Rispettate il pane, sudore della fronte, orgoglio del lavoro, poema di sacrificio”.
Poco prima di ordinare, un ragazzo si alza dal tavolo vicino, si avvicina e chiede «Professore, possiamo farci un selfie?», «Certo che possiamo». La richiesta – formulata e accolta con la cordialità che nonostante i tempi difficili mantiene dolce il vivere in questa parte del Paese – è complementare al sibilo dell’automobilista arrabbiato, in una Italia che sta polarizzando l’anima di ogni cosa e di ogni persona.
Prodi, che l’anno prossimo compirà 80 anni, è in una forma fisica invidiabile («Sono riuscito a scendere a 78 chili, proprio quello che consideravo il peso forma»): lui ordina un piatto di verdure e una bistecca di manzo, niente antipasto, un bicchiere di lambrusco; io prendo un piatto di tortelli di magro, burro e salvia. Lui nemmeno guarda il piatto di mortadella, salame, prosciutto crudo e pezzi di parmigiano reggiano portato dall’oste.
Romano Prodi è tante cose. È l’ottavo di nove figli, generati da Enrica e da Mario, un ingegnere cattolico diventato funzionario pubblico nella comunistissima Reggio Emilia e, per questo, mai assurto alla carica di ingegnere capo della Provincia. È il ministro dell’Industria del quarto governo Andreotti («Era il 1978, la sera in cui diventai ministro per la prima volta ero a casa dai miei, mia mamma, finito di cenare, mi disse “oh minister, porta zo al rosc”, “oh ministro, porta giù l’immondizia”»). È il due volte presidente dell’Iri, il cuore a lungo possente e alla fine malato dell’economia pubblica del Novecento italiano. È il presidente della Commissione europea, negli anni dell’introduzione della moneta unica prima accolta con entusiasmo e ora tanto criticata e contestata («E, oggi, nel conflitto politico ed economico fra Stati Uniti e Cina, ci sarebbe bisogno che l’Unione europea trovasse la lucidità e la forza di porsi come mediatrice sui problemi del commercio internazionale, sui brevetti e sulla proprietà intellettuale»). Ha battuto due volte Berlusconi alle elezioni politiche. È il padre nobile dell’Ulivo, tradito dai suoi nella corsa al Quirinale. È l’uomo di relazioni internazionali strutturate, uno dei pochi leader occidentali ad avere un rapporto continuativo con le élite cinesi e a conoscere bene l’Africa («Che dispiacere non potere andare nella regione del Lago Ciad, adesso ci sono grandi problemi di sicurezza»), con un impegno perseguito con la Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli («Abbiamo pochi soldi, ma non importa, facciamo progetti molto mirati che ci danno grande soddisfazione»).
Ma Prodi – fra il potere e la responsabilità, i dossier e i libri – resta l’economista industriale che, nel 1966, scoprì un pezzo del Paese misconosciuto con il saggio Modello di sviluppo di un settore in rapida crescita: l’industria della ceramica per l’edilizia. Da giovane ricercatore e poi da accademico di professione – con i suoi rapporti con il mainstream anglosassone, ma anche con la crescente influenza della sua personalità pubblica – è uno degli economisti che più hanno dato dignità civile prima che scientifica a una Italia nascosta e minore, a lungo afflitta da complessi di inferiorità e guardata con sussiego dai soloni del vecchio Triangolo Industriale. L’Italia delle piccole e medie imprese e dei territori, delle filiere e di quelli che Giacomo Becattini avrebbe chiamato i distretti industriali. Una Italia che oggi ha proprio in questa Emilia Romagna cordialmente sorridente e duramente competitiva uno dei suoi epicentri con la meccatronica e il packaging, l’automotive industry e il biomedicale, la farmaceutica e l’agroalimentare.
Questa forma particolare di Italia – in assenza di una costellazione di grandi imprese – è diventata l’ossatura industriale e civile, culturale e sociale portante del nostro Paese. Il quale, adesso, è sottoposto a un nuovo giro di dadi della Storia, con gli equilibri geopolitici e la fisiologia della manifattura e dei commerci internazionali che si trovano nel pieno di una rimodulazione violentissima. «Questi rivolgimenti del contesto internazionale potrebbero presto presentare il conto», dice Prodi senza allure professorale o atteggiamento da Cincinnato ritiratosi dalla politica. «Il primo fenomeno è il desiderio di autorità che si è propagato nel mondo, con il popolo che vuole una autorità forte senza enti intermedi: la Cina e gli Stati Uniti, ma anche la Russia, l’Ungheria, il Brasile, le Filippine e la nostra Italia. Questo desiderio lo si percepisce in maniera quasi fisica. Il secondo fenomeno è l’attuale inedita fase di prevalenza della politica sulla economia: il che, con caratteri diversi, accade sia in Cina che negli Stati Uniti. In Cina, questa prevalenza è naturale ma ha assunto contorni nuovi. Xi Jinping ha definito le linee di concentrazione e di espansione interna e all’estero delle grandi imprese cinesi, elaborando una strategia precisa e lucida e sottolineando il loro legame e la loro dipendenza dal potere politico nel rapporto con il governo, il partito e l’esercito. E questa strategia fa il paio con un atteggiamento di consapevolezza del ruolo internazionale della Cina: nel discorso dell’ottobre del 2017 all’apertura del XIX congresso del Partito Comunista Cinese, Xi Jinping ha iniziato una nuova fase: non più una Cina all’inseguimento ma un modello che, per i suoi successi, diventa attrattivo, sottraendo il ruolo ai sistemi democratici. Questa tendenza ha come contraltare Donald Trump che con l’America First, pur in maniera diversa, influenza il comportamento delle imprese americane con decisioni sorprendenti e senza precedenti».
Tutto questo sancisce la fine della età aurea della globalizzazione. Soltanto che, nel nostro Paese, non c’è coscienza di quanto questo possa danneggiare il nostro sistema industriale. Prodi – nella molteplicità delle sue esperienze – ne è ben consapevole. Si toglie gli occhiali e assume un tono di serietà preoccupata: sembra, nelle linee del volto, quasi un’altra persona. Li inforca di nuovo e diventa preciso e affilato: «La globalizzazione ha fatto una selezione dura e dolorosa, ma ha anche plasmato e migliorato il tessuto produttivo italiano. Il cuore del nostro capitalismo sono le 2.500 medie imprese molte delle quali, pur essendo modeste di dimensioni, si sono globalizzate attraverso una specializzazione spinta. La loro capacità di combinare innovazione di prodotto e di processo, il loro saper fare quasi artigianale, ma molto raffinato e tecnologicamente complesso, è impareggiabile. La loro forza, che è la nostra forza, è quella di operare nelle nicchie e di rimanere agganciate alle catene globali del valore. Se l’organizzazione del mondo cambia, anche le cose per noi cambiano. E non in meglio».
Per questa ragione, Prodi mostra preoccupazione: perché in molti non hanno idea di che cosa potrebbe capitare qui, nella piccola Italia, se l’edificio della globalizzazione – tanto vituperata – andasse davvero in mille pezzi. E, mentre prendiamo il dessert (io del mascarpone, lui un più salutare ananas), il cerchio si chiude – nel pensiero e nel tono emotivo del colloquio – con quello strano ottimismo pragmatico e duro che hanno i reggiani di prima montagna, una cifra rimasta dentro a uno nato a Scandiano: «Sì, però io penso ogni tanto ai miei imprenditori delle piastrelle, che hanno accompagnato e hanno attraversato la nostra storia fin dal Boom economico. Hanno dominato a lungo il mondo. Poi è arrivata la globalizzazione. Adesso, hanno meno del 4% del mercato internazionale. La Cina ha il 48 per cento. Soltanto che i cinesi vendono a meno di 3 euro al metro quadro. E noi a 14 euro». La globalizzazione è stata complicata. Ma noi, comunque, abbiamo trovato un nostro – proficuo – posizionamento. La fine della globalizzazione rischia di essere difficilissima, se non letale. Anche se nella natura italiana esistono una capacità adattiva e una energia significative, quasi inspiegabili, di certo imprevedibili.
Mentre ci salutiamo, a proposito della funzione dello strano e imperscrutabile amalgama italiano in questa notte che nessuna sentinella sa a che punto sia, mi viene in mente – in un gioco di rimandi fra economia e letteratura, microcosmi e vasto mondo – il finale di Altri libertinidello scrittore Pier Vittorio Tondelli, un altro figlio dell’Emilia Romagna, nato a Correggio e cresciuto a Bologna: “Nella mia terra, solo ciò che sono mi aiuterà a vivere”. I produttori di piastrelle di Sassuolo, i mille altri imprenditori della multiforme Italia, Romano figlio di Enrica e Mario e ottavo di nove fratelli prima di tutto il resto, sono – in fondo – esattamente questo. Il Professore è preoccupato, ma sorride.