Robinson, 2 dicembre 2018
Così fan tutte, non certo i Muti
Amori dannati, anime tormentate. Per il ritorno al San Carlo il Maestro restituisce a Mozart la malinconica dannazione del capolavoro mentre sua figlia Chiara lo veste di delicatezza: cosa c’è di più piccante della nostra fragilità? Tenerezza e disincanto inondano Così fan tutte a Napoli, in coproduzione con Vienna. Per Riccardo Muti, di ritorno sul podio del San Carlo dopo trentaquattro anni, l’opera di Mozart non è davvero commedia, né gioco geometrico di coppie scoppiate, né un’accusa all’incostanza delle donne nelle questioni sentimentali. È piuttosto un’indagine sulle contraddizioni dell’animo umano, una riflessione indulgente sulla fragilità della natura maschile e femminile, indifferentemente. Non c’è tanto da ridere, qui. C’è da pensare. E non certo a quel che può accadere sotto le lenzuola, poiché, anzi, le allusioni piccanti che crepitano nel libretto di Lorenzo Da Ponte si traducono in pulsione di morte. Il fatto è che per le due paia di fidanzati (giovani nella trama e sul palco), l’amore sembra dannazione anziché piacere, l’ossequio a una convenzione cui sottomettersi fingendo felicità. Se Guglielmo sta con Fiordiligi, se sua sorella Dorabella sta con Ferrando, questi sono i matrimoni da fare; non importa se funzionerebbe meglio un’inversione di partner, e che loro stessi l’abbiano sperimentato. Amara è la soluzione prescelta – lasciare ogni cosa com’è, senza seguire il cuore – e Muti, penetrando con pudore nell’animo dei personaggi, rivela che anche Mozart lo crede. D’altronde è la partitura a dichiararlo. Perché diverse pagine di Così fan tutte stanno tra il patetico e il serio, e anche quelle più brillanti suonano offuscate di malinconia. Quindi la condotta musicale di Muti assume un carattere crepuscolare pure quando l’orchestra sofficissima, incalzata da una brezzolina volubile che la fa respirare a pieni polmoni, diffonde tinte pastello alla Fragonard.
Ma proprio questo colorismo casto, riverbero di un’innocenza di natura, del mare e dei giardini nella scenografia, contrasta di proposito con la tensione metafisica cui sottostà perlopiù il canto (addirittura quello del coro, trasfigurato), segno di quanto l’aspirazione all’affetto autentico sia, di fatto, frustrata. Altro che sesso birichino: tutti e sei i protagonisti si trincerano nelle carcasse dei propri ruoli, dalla vocalità astratta perfino quando riesce profondamente toccante. Marco Filippo Romano è il giudizioso burattinaio che, insieme alla Despina di Emmanuelle de Negri più pragmatica che maliziosa, guida il rovesciamento delle coppie: di Alessio Arduini con Maria Bengtsson, una Fiordiligi che affonda poco nei gravi, di Paola Gardina con Pavel Kolgatin, che costruisce la sua parte con qualche difficoltà.
La regia di Chiara Muti, intrisa di memorie strehleriane, ragiona in consonanza con la visione paterna. Sottovesti, corsetti, velari, tendaggi volteggiano di continuo creando una coreografia delicatissima di tessuti bianchi, crema, celestini nelle tante figure che popolano la scena e spesso la osservano dall’alto di due logge, quasi fossero spettatori di un teatro. È candido l’abbigliamento e l’arredamento, persistenti le memorie dell’infanzia, con la presenza di cavalli a dondolo, una giostra, la mongolfiera. Ambientazione onirica, ma finale inclemente: le coppie originarie si riformano, certo, però litigano di brutto. Le loro potrebbero non essere nozze felici.