Robinson, 2 dicembre 2018
Tennis e pittura
Nel lavorare a questo volume, non ho potuto dimenticare 500 anni di tennis, secondo il mio amico Enzo Biagi “l’unico libro italiano tradotto non meno di Pinocchio e dei Promessi sposi”, e cioè in sette lingue. Mi sono domandato più volte se l’inizio di un volume, che tenti di percorrere un’incompleta storia del tennis per immagini, non dovesse seguire al contempo le stesse tracce, spesso meno visibili, spesso perdute. Credo sia saggio, e insieme doveroso, ritenere questo mio dubbio indubbio, e far sì che l’aficionado privo di 500 anni di tennis non si trovi a sfogliare un libro spesso affascinante, ma confuso.
Ecco, dunque, i commenti del Tennis nell’arte, che sono in parte simili a quelli più specialistici di 500 anni di tennis, il mio testo più conosciuto nel mondo. Non si tratta soltanto di una scelta di belle immagini, in parte famose, ma di un mio diario e insieme delle attendibili annotazioni storico artistiche di Milena Naldi.
Il mistero di Carrà
Il primo Carrà che attrasse la mia attenzione, per la presenza di una racchetta, fu quello chiamato La musa metafisica, del 1917, alla Pinacoteca di Brera, una mia ricreazione del periodo in cui frequentavo il Jamaica, e mi servivo di qualche ritaglio di tempo fra un appuntamento e una visita.Mentre pensavo che la pittura contemporanea aveva mostrato poca curiosità per il tennis, il mio amico Giorgio Soavi mi disse che avevo torto, almeno riguardo a Carrà. E mi mise sulla via del ritrovamento di altri tre quadri raffiguranti personaggi armati di racchetta: Il figlio del costruttore (1917-21, collezione privata), La figlia dell’Ovest (1919, al Museo di Düsseldorf) e quello simile a La musa metafisica, con il pesce in terra, L’ovale delle apparizioni (1918, alla Galleria di arte moderna di Roma).
Ho letto un pochino sul grande Carrà, sul suo incontro con Marinetti, e ne ho ammirato la capacità di variare stile e pensieri nel Manifesto dei pittori futuristi. Ciò che non sono stato in grado di trovare, da appassionato dilettante di pittura, è il perché di una ripetizione di quella che è, in fondo, la stessa figura, sicuramente simbolica: ma simbolica di cosa?
Non c’è, in quel che ho letto sul pittore, nulla che riguardi il tennis. Esiste, ma non l’ho trovato in alcuno scritto, una vivissima somiglianza fra le racchette impugnate dalle tre – come chiamarle – muse, racchette di forma allungata, forse più simili a quelle dello Scaino che alle Dunlop o alle Sail degli anni nei quali furono dipinti i quadri, dal 1917 al 1919. Le corde delle racchette delle muse ricordano quelle delle prime racchette di fine Quattrocento, mentre quella del Figlio del costruttore sembra contemporanea. Perché?
Le palle sono prive di connotazioni che ci diano aiuto, e non appaiono né Dunlop né Pirelli, ma soltanto oggetti tondi. Nemmeno gli sfondi ci aiutano, e le tre case che compaiono nei quadri delle muse non sono assolutamente individuabili. A questo punto non è facile chiedersi: Carrà era un tennista, o almeno un aficionado? E perché, se non lo era, tanta insistenza sullo stesso soggetto? Sarei lieto che un appassionato di pittura e insieme di tennis sapesse dirmelo, mentre mi domando se un simile dubbio ha qualcosa a che fare con i quattro magnifici dipinti. A loro modo, misteriosi.
Il povero fagiano
«Ma certo che lo devi comprare. Se non lo vuoi tenere tu, te lo ricompro io». Era il mio caro Harry Langton che così mi parlava al telefono, mentre io ammiravo la foto del quadro dei due fratellini armati. Non solo di racchetta erano armati i fratellini, due bambini all’apparenza sugli undici e i tredici anni, elegantemente vestiti, con le rosse giacche che ammirate e i gilet e le scarpe con le fibbie dorate. Ma il più grande dei due aveva in mano, oltre all’arco, una freccia di acuità e lunghezza preoccupante. “Erano i simboli dell’aristocrazia”, aggiungeva il mio amico al telefono.” Dev’essere anche uno dei primi casi, perché il dipinto, che dovrei vedere per meglio inquadrarlo, sembra del Settecento. Ma insomma, lo vedrò quando vengo in Italia, mi sembra troppo interessante per non comprarlo. E poi, tu che tiri all’arco, come fai a trattenerti?”. Seguì una risata. Infatti, da Lillywhites, il negozio di Piccadilly, avevo comperato, quasi per caso, un arco, completando la vicenda con delle frecce da caccia all’orso, a imitazione del mio amico, e medico, Franco Pessina, uomo di per sé stravagante, che si esercitava al bersaglio nel giardino di casa. Orsi, nelle zone di montagna intorno a Como, non ce n’erano più dall’inizio dell’Ottocento, quando secondo una vecchia guida si offriva ben una lira per la cattura di un orsacchiottino. E quindi perché non ascoltare il suggerimento di Sandra Castellani Torta, l’amica e professionista d’arte e sport di Torino, che per prima aveva scoperto il dipinto di John Russell e me lo aveva consigliato?
Prolungo questo aneddoto perché non so trattenermi, avendone già scritto, sul Giorno, un articolo al quale nessuno aveva creduto. Sono stato amico dei fratelli Gian Marco e Massimo Moratti, della sorella Adriana, e bene accolto dai genitori Erminia e Angelo. Accade che un giorno, nella loro villa di Imbersago, mi sento chiedere se parteciperei a una battuta di caccia, magari come cane da riporto, e rispondo che potrei, al contrario, tentare con l’arco.
Rimangono tutti increduli nel vedermi, il giorno stabilito, giungere con la mia Topolino, dalla quale estraggo l’arco. Soprattutto sono increduli i guardiacaccia. Ci si avvia, e il mio primo tentativo, con una lepre, è accolto da risate generali. Nessuno pensa che riesca a colpire un animale, e nemmeno io. Ma un fagiano, atterrando poco distante, dev’essere proprio il fagiano più sfortunato che si conosca, perché la mia freccia lo colpisce, seppur in modo non definitivo, ma che gli impedisce di volare. Si fa allora avanti un guardiacaccia, e termina l’uccisione. Mentre i cacciatori increduli mi applaudono, vorrei essere altrove e non aver mai acquistato un arco. Non ho mai veramente pensato di uccidere un animale. A casa, alloggerò l’arco fianco al quadro e, pago di non essere creduto al giornale, non racconterò mai più verbalmente la storia del povero fagiano.