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 2018  dicembre 02 Domenica calendario

Intervista a Peter Cameron

«Scrivo lentamente. E fra un libro e l’altro vivo lunghi periodi in cui non trovo idee. Quando accade ho paura: mi convinco che non me ne verranno più, che non scriverò altri libri. Ho già vissuto quei momenti e so che prima o poi l’ispirazione arriva. Ma ogni volta non riesco a crederci: e vado in crisi». La camicia amaranto, la barba un po’ lunga, Peter Cameron, cinquantanove anni, autore di tanti bestseller da Quella sera dorata a Un giorno questo dolore ti sarà utile, tutti diventati film di successo, sembra un po’ il protagonista de La fine della mia vita a New York, il primo dei due racconti contenuti nel nuovo libro, Gli inconvenienti della vita. Appunto: uno scrittore che ha perso l’ispirazione. «Mi riconosco in tutti i miei personaggi, sono empatico con ciascuno di loro».
Sarà per questo che ogni suo libro è diverso dal precedente?
«Le storie maturano nel mio subconscio, intrecciandosi a ciò che mi accade o che leggo. Ogni tanto diventano l’idea di un libro. Ma è un processo che non controllo. Del resto è difficile spiegare alla gente di cosa scrivo: non ho un genere riconoscibile. Scrivo storie di persone, ecco. Quei piccoli momenti della vita in cui il modo in cui interagiamo con gli altri ci cambia per sempre».
Nel racconto descrive la complicata relazione fra chi scrive libri e chi scrive per il cinema. Lei scrive per entrambi.
«Chi scrive libri lo fa per sé stesso: inventa un mondo dove prende tutte le decisioni. Chi scrive per il cinema cede le sue idee agli Studios che possono cambiare tutto. Io scrivo mettendomi in gioco emotivamente e creativamente: non sopporterei imposizioni. È vero, ho scritto per il cinema: ma solo adattamenti di miei racconti».
Molti suoi libri sono diventati film: lei ripete che si tratta di forme d’arte diverse ma dev’esserci qualcosa di cinematografico nelle sue storie. Non tutti i buoni romanzi diventano film.
«Forse ad attrarre i registi è il fatto che la mia struttura narrativa si basa sul dialogo e dunque la sceneggiatura è già lì: è facile immaginarsi il film. Romanzi più interiori sono meno facili da adattare».
È un gioco antipatico, ma c’è un film tratto da un suo libro che preferisce?
«Quella sera dorata di James Ivory. Amo il suo perfezionismo: l’attenzione al dettaglio che ho anche io nei miei libri. D’altronde penso che quando si adatta un romanzo per il cinema la persona più importante non è lo sceneggiatore ma lo scenografo. È lui a tradurre la tua visione del mondo in immagini».
E invece Ivory ha appena vinto un Oscar proprio calandosi, lui regista, nei panni dello sceneggiatore, con “Chiamami col tuo nome” di Guadagnino.
«Ammiro Ivory. È una persona incredibile. Ha novant’anni e sa più di me quel che accade nel mondo. Va a teatro e al cinema continuamente. Viaggia molto: è appena tornato da Cuba. Condivide esperienze incredibili. E infatti sto pubblicando le sue memorie con la piccola casa editrice che ho fondato, Shrinking Violet. Piccoli libri che faccio a mano io stesso: edizioni limitate da dieci copie».
Il cinema italiano, e mondiale, piange Bernardo Bertolucci: anche lui ha attinto molto dai romanzi.
«Amo molto Novecento e L’ultimo imperatore: tra le più pure e intense esperienze cinematografiche che ho vissuto. Film capaci di ipnotizzarti, cambiarti».
Torniamo al gioco antipatico: i film dai suoi libri in cui si riconosce meno.
«The Weekend di Brian Skeet: lontano dal libro. E anche Un giorno questo dolore ti sarà utile. Con Roberto Faenza provammo a lavorarci insieme: ma avevamo idee diverse e decisi di lasciare tutto a lui. Questo non vuol dire che il film non sia buono: solo che quando metti una storia fuori da te gli altri ci trovano quel che vogliono. Succede anche con i lettori, ciascuno si ricrea la storia a modo suo».
Ma scusi: avrà pensato di dirigersi un film da sé.
«Sì, ma è troppo complicato. Una delle cose che amo dell’essere romanziere è che non hai bisogno di otto milioni di dollari per creare il tuo mondo».
Lei arriva da New York: la capitale del romanzo degli ultimi due secoli. Si riconosce in qualche scuola?
«Quando iniziai, negli anni Novanta, mi definivano” minimalista”. Un’etichetta che serviva soprattutto ai critici e oggi è dimenticata. Mi ritengo piuttosto uno scrittore d’altri tempi: costruisco romanzi come faceva Jane Austen. In fondo non lavoro in modo diverso da come facevano autori vissuti duecento anni fa».
Anche oggi che dopo “Outline”, la trilogia di Rachel Cusk, va così di moda parlare della “fine del romanzo”?
«Mi piace Cusk: è brillante. Ma l’idea di rompere e reinventare non mi appartiene. I romanzi convenzionali non mi annoiano: se sono buoni o meno è questione di contenuto più che di struttura. La verità è che leggo poca letteratura contemporanea. Non m’interessano le sperimentazioni».
Lei dice di “aver iniziato a scrivere per creare un luogo ideale lontano dalla bruttezza della realtà”. Questo libro è stato scritto prima dell’avvento di Donald Trump in un’America diversa. Eppure si percepisce un forte disagio.
«Scrissi quei racconti prima del 2016 ma li ho riadattati di recente. Ma non ho provato a scrivere di com’è oggi l’America. Anche perché se pensassi che è di quello che scrivo, ne sarei spaventato: non scriverei nulla. M’interesso di politica: ma non la metto nei libri. Anche se mi fa piacere se poi riflettono la mia visione del mondo».