Quando è nata la sua passione per le stelle?
«Da bambino: una volta mio padre tornando a casa mi portò il set del piccolo chimico. C’era anche un microscopio, e la prima cosa che ho fatto è stata smontarne la base e puntarlo verso il cielo come se fosse un telescopio. Chiaramente non ho visto nulla, però è stata la prima volta che ho usato uno strumento per guardare il cielo».
Perché è importante misurare la luce delle stelle?
«Le stelle emettono fotoni che vagano e rimangono nello spazio anche molto tempo dopo la morte delle stelle: misurando questa luce stellare, e soprattutto le sue variazioni nel tempo, riusciamo a ricostruire la storia dell’universo e delle stelle. Ed è affascinante, perché ci può raccontare da dove veniamo noi stessi e forse anche aiutarci a capire ciò che siamo».
Come ci è riuscito?
«L’osservazione diretta non basta, perché la luce delle stelle più lontane è molto flebile: se tralasciamo il Sole e la Via Lattea, la luce che arriva sulla Terra dal resto del cosmo non è più intensa di quella di una lampadina da 60 Watt vista da 4 chilometri di distanza. Il nostro metodo usa i fotoni gamma, un miliardo di volte più energetici dei fotoni della luce che vediamo con i nostri occhi. Quando un fotone gamma si scontra con un fotone ottico è come se sparisse: con il rilevatore di raggi gamma sul telescopio spaziale Fermi non lo vediamo più. Così capiamo che in quel punto doveva esserci un fotone ottico, la luce delle stelle».
E come avete contato tutti questi fotoni per arrivare al numero enorme di 4 x 10 alla 84esima potenza?
«Considerando i blazar, galassie con buchi neri che inviano raggi gamma ad alta energia verso Terra.
Abbiamo contato quanti di questi raggi gamma vengono rimossi per via dello scontro con la luce stellare. Misurare quanti fotoni gamma sarebbero dovuti arrivare e quanti sono arrivati davvero ci dice quanto è densa la nube di luce stellare.
Quando ho visto per la prima volta il risultato sono rimasto sbalordito: è un numero così gigantesco che sono andato a ricontrollarlo più e più volte, pensando che dovesse essere sbagliato».
Quando le è venuta l’idea di questo nuovo metodo di misura?
«Lavoravo a tutt’altro: studiavo un blazar e mi sono accorto che maggiore era l’energia emessa dal blazar, minore il numero dei fotoni gamma che ricevevamo rispetto a ciò che ci aspettavamo. Così ho avuto l’idea che questo curioso fenomeno non fosse dovuto alla sorgente, ma al fatto che i fotonigamma potessero essere assorbiti mentre viaggiavano verso di noi dalla luce stellare. Lì si è accesa una lampadina: questo fenomeno avrebbe dovuto verificarsi anche per i fotoni gamma di qualsiasi altra sorgente. Ed è quello che accade».
Qual è il vantaggio?
«Il metodo classico si basava sul fatto che le galassie sono "fabbriche di stelle", quindi contando le galassie si poteva dare una stima della luce stellare. Ma nemmeno il telescopio Hubble riesce a vedere tutte le galassie più lontane. Inoltre il 10% delle stelle si forma al di fuori delle galassie e il vecchio metodo le ignora. Invece con il nostro è come se tutti i fotoni delle stelle, sia interne che esterne alle galassie, finissero nello stesso "recipiente" – la luce stellare di fondo – che oggi possiamo misurare».
Professor Ajello, cos’è per lei il cielo stellato?
«Fa parte dell’infinito e della nostra connessione a esso. Ma è anche una mappa da mostrare ai miei figli la sera».