la Repubblica, 2 dicembre 2018
Censure in nome del Metoo
Baby, it’s cold outside, bimba fa freddo là fuori, resta ancora con me. Frank Loesser l’aveva scritta nel 1944 per la moglie Lynn Garland, la cantavano insieme nei party di Los Angeles e New York, un modo per salutare gli ospiti e insieme un gioco di seduzione. E Lynn se n’era innamorata al punto che quando Frank decise di venderne i diritti alla Metro-Goldwyn-Mayer lei andò su tutte le furie: «Era la nostra canzone, mi ha tradita, è come se l’avessi trovato a letto con un’altra». Nei decenni successivi il brano è diventato un classico della musica americana, l’hanno cantato Johnny Mercer e Margaret Whiting, Ella Fitzgerald e Louis Jordan, Lady Gaga e Tony Bennett, prima di finire censurato da una stazione radio di Cleveland, in Ohio, la Star 102, per via anche del #Metoo: il testo è offensivo e violento nei confronti delle donne, protestano pubblico e conduttori. Desiray, una delle presentatrici della radio, ha detto alla Cnn che «ok, la gente può anche dire “basta con questo #Metoo”, ma se leggo il testo della canzone non vorrei che mia figlia si trovasse in quel tipo di situazione». Un incontro amoroso, lei che a un certo punto vuole (e deve) andar via, lui che cerca di convincerla a restare, lei che chiede «cosa hai messo nel mio drink?». E pensare che negli anni in cui è stato scritto, notava qualche tempo fa il blog femminista Persephone Magazine, era considerato un testo progressista, perché una donna non sposata che restasse a dormire a casa di un uomo era ancora uno scandalo, nei primi anni Cinquanta.
Il #Metoo sta cambiando la nostra grammatica culturale? Il brano di Loesser non è l’unica opera a finire sotto processo. Qualche settimana fa l’attrice Keira Knightley ha raccontato di vietare alcune favole Disney a sua figlia, classici come Cenerentola e la Sirenetta, perché «sono sessiste» e restituiscono l’immagine di una donna rinunciataria e soccombente. A Berlino, all’università Salomon Hochschule, all’inizio di quest’anno è scoppiato un putiferio per i versi di una poesia di Eugen Gomringer che campeggiava sulla facciata dell’istituto: un testo “sessista” perché descrive le donne come muse votate solo a suscitare la fascinazione maschile, lamentava un piccolo, ma agguerrito gruppo di studenti. A gennaio la Manchester Art Gallery ha rimosso per alcune settimane un quadro di John William Waterhouse, Ila e le Ninfe, non per censurare, ha spiegato la curatrice della galleria, Clare Gannaway, ma per «stimolare una riflessione sul modo in cui vengono rappresentate le donne», ammettendo però che il movimento del #Metoo aveva in parte contribuito alla decisione. Il dipinto è del 1896, età vittoriana, ragazze nude che seducono un fanciullo nudo. Del resto a Londra, nella metro, coprono i nudi di Egon Schiele e Klimt, e quasi ci si sorprende che diano ancora “scandalo”. Al cinema non va diversamente, l’ondata di rivolta contro il maschilismo e le molestie non ha fatto prigionieri. Attori finiscono fuori scena e film fuori sala, come l’ultimo di Woody Allen, Rainy Day, bloccato da Amazon per le accuse di presunte molestie sessuali al regista mosse da sua figlia. Liberazione o censura?
Chissà cosa sarebbe successo a Georgie, uno dei cartoni culto per chi è nato negli Ottanta – in cui la protagonista ha una relazione amorosa ambigua con i suoi fratelli – in epoca di #Metoo.