Corriere della Sera, 2 dicembre 2018
La giugnla dove Silvia è prigioniera
AL NOSTRO INVIATO DAKATCHA FOREST (Kenya) Lo vedi quand’è tardi. Ti striscia davanti e t’attraversa il sentiero. «Green mamba!». Così verde nella boscaglia che capisci perché, solo quest’anno e solo su questa stradina, il peggiore dei serpenti abbia già fatto dieci morti. Così veloce da spiegare perché lo chiamino il Mamba Seven Steps: provi a scappare dopo il morso e tanto è inutile, ma dove vai, al settimo passo sei già stecchito. Il paradiso terrestre della Dakatcha è l’inferno in terra di Silvia Romano. Novanta chilometri da dove l’hanno rapita: ore di jeep verso la Somalia, in una delle foreste più belle e angoscianti del Kenya. Regno incontrastato dell’oriolo e del turaco e del rarissimo tessitore giallo di Clarke. Nascondiglio inviolato per la banda degli Orma che undici giorni fa si son portati via la volontaria milanese. «Questa mattina sono venuti da me sei uomini», ferma la moto e ci racconta Jumaa Badiva, 34 anni, contadino di Kasikini, uno dei 150 micro villaggi di questa boscaglia: «Non sono poliziotti, è gente che collabora alle ricerche e conosce bene la zona. Sono andati in un paesino. Magari sanno già che Silvia è là, ma per entrare in quei posti devi stare attento ed essere intelligente». Quale posto? «Loro hanno preso la ragazza e sono passati per la valle del fiume Tana. Poi l’hanno messa in una casa». Che casa? «Loro sanno bene dov’è. Ma bisogna stare attenti…».
La regione
Il paradiso terrestre della Dakatcha è a novanta chilometri da dove l’hanno rapita
Into the wild. Nel fango, nelle spine, nel verde totale. Nel buio fitto della scomparsa di Silvia. Bisogna salire da Malindi alle rocce di Hell’s Kitchen, la meraviglia che prima d’ispirare un famoso programma tv è stata cucina di tutte le magie nere africane, e poi entrare nella Dakatcha e inciampare in un punto qualunque: non c’è drone o elicottero che possa scovare la ragazza nell’immenso mare d’acacie e baobab, nell’ombra scura del teak e del sandalo. Bush impenetrabile e irrespirabile, umido e muto, il cobra che attacca l’impala, l’Africa che t’obbliga a chiudere i finestrini per non farti strappare la carne da rovi che ti ghermiscono come artigli. La polizia pattuglia dove riesce, usa gli informatori, promette taglie che i ventimila abitanti della foresta non saprebbero nemmeno contare, figurarsi incassare. Mulunguni, il posto dell’abbandono delle moto indiane usate nel sequestro. Kapangani, la radura che ha restituito le treccine bionde di Silvia. Oakala, il bivio che ha lasciato tracce nella terra rossa e pozzangherosa. Bombi, i testimoni che hanno visto una bianca velata dal niqab. Bungale, il ritrovo delle camionette militari. Molti indizi e pure molta scena: solo qualche mese fa li hanno arrestati, un po’ di poliziotti della Dakatcha, perché facevano contrabbando di carbone d’accordo coi malavitosi locali. I contadini restano chini sui piccoli campi di manioca, di banane, di mais che la foresta concede. Alla fine si fanno gli affari loro, le autorità non sono molto amate in questa parte di Kenya e anche gli italiani non hanno lasciato buoni ricordi: una società milanese venne nei boschi con un progetto per la produzione di biodiesel, a disboscare l’Eden della biodiversità e di 220 specie d’uccelli, e ci fu una battaglia d’anni contro «chi voleva togliere il pane a noi per nutrire le vostre automobili».
Oggi si prega per la ragazza, nelle chiese e nei templi del Kenya. L’ha chiesto il vescovo protestante di Malindi, Lawrence Dena, e solo gli indù hanno aderito: nessun segno dai cattolici o dei musulmani. L’eco dello stesso silenzio calato in Italia sul caso Silvia. Rotto da poche voci: «Spero torni a casa», dice padre Orazio, da una vita missionario qui. Interrotto da una canzone dei Maneskin, la preferita di Silvia, che le sue amiche ci mandano via Facebook mentre ci ficchiamo nella foresta aguzza e velenosa che l’ha inghiottita: «Mi hai raccolto da per terra coperta di spine, coi morsi di mille serpenti…».