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 2018  dicembre 02 Domenica calendario

Biografia di George Bush senior (in morte)

La Stampa È stato l’ultimo presidente della «generazione più grande», quella che aveva combattuto e vinto la Seconda Guerra Mondiale. Davvero l’ultimo di una generazione di politici d’altri tempi, che potevano anche indossare gli occhiali nei comizi, perché tanto la sostanza era ancora più importante dell’immagine. George Herbert Walker Bush, cioè l’uomo che dalla Casa Bianca aveva visto sgretolarsi l’Urss, aveva scacciato Saddam dal Kuwait, e aveva immaginato il «nuovo ordine mondiale», per lasciarla poi dopo un solo mandato ad uno sconosciuto ex governatore dell’Arkansas, solo perché l’economia non si era decisa a ripartire con qualche mese di anticipo.Bush padre, senior, the elder, come veniva chiamato dopo che anche il figlio era diventato presidente, apparteneva ad una casta di predestinati. Quasi l’equivalente, fronte repubblicano, della famiglia Kennedy fra i democratici. Era nato a Milton, Massachusetts, dal senatore Prescott e da Dorothy Walker. Classe 1924, prima della Grande Depressione. Era cresciuto come i rampolli delle famiglie patrizie, nella democrazia più antica dell’era moderna: prima la Phillips Academy di Andover, quelle «prep school» esclusive, create apposta per instradare dal principio la classe dirigente; poi la Yale University, dove aveva seguito le orme del padre, entrando anche nella società segreta Skull and Bones, quella che secondo la leggenda aveva trafugato le ossa di Geronimo e le custodiva in una cripta.
La Seconda guerra mondiale
Prima che entrasse all’università, però, era scoppiata la Seconda Guerra Mondiale, e subito dopo Pearl Harbor George aveva deciso di arruolarsi nella Marina. Aveva appena 18 anni, divenne il pilota di aerei più giovane in servizio, conducendo 58 missioni di guerra contro i giapponesi. L’ultima, contro le installazioni sull’isola di Chichijima, gli costò quasi la vita, perché il suo bombardiere venne colpito dalla contraerea. L’apparecchio era in fiamme, ma lui lo portò comunque sull’obiettivo, e dopo aver sganciato il suo carico volò sul mare per lanciarsi col paracadute.
Finita la guerra era tornato alla sua vita normale. Aveva sposato Barbara Pierce, si era laureato, aveva messo al mondo sei figli e si era trasferito in Texas, usando le connessioni del padre senatore per lanciare il suo business petrolifero. A 40 anni era milionario, e allora l’aveva preso la febbre per la politica. Nel 1966 era diventato deputato, il primo repubblicano nel distretto di Houston, ma dopo due mandati aveva lasciato il seggio per obbedire a Nixon, che gli aveva chiesto di sfidare il suo rivale democratico Ralph Yarborough per il posto di senatore del Texas. Bush aveva perso, perché nel frattempo Lloyd Bentsen si era presentato invece di Yarborough, ma il presidente non aveva dimenticato il suo sacrificio. Lo aveva premiato nominandolo ambasciatore americano all’Onu, e poi capo del Partito repubblicano. Una posizione in cui aveva dovuto gestire gli anni delicati del Watergate, separando il Gop dalla persona di Nixon e salvandolo dallo scandalo. Ford lo aveva prima considerato e poi scartato come vice, ma la sua carriera era continuata prima come ambasciatore in Cina e poi come direttore della Cia. Tutta esperienza che gli aveva consentito di creare un profilo d’altri tempi, fatto di preparazione soprattutto in politica estera.
Nel 1980 si era scontrato con Reagan alle primarie presidenziali e aveva perso, ma l’ex attore lo aveva scelto come vice proprio per la sua dimestichezza con Washington. E Bush non lo aveva tradito, rifiutandosi persino di atterrare con l’elicottero presidenziale sul South Lawn della Casa Bianca, dopo che Reagan era stato ferito nell’attentato del 1981. George era rimasto fedele, costruendo una partnership che nel 1988 gli aveva aperto le porte della nomination repubblicana.
Il muro di Berlino e il Kuwait
Bush aveva sconfitto Dukakis in quella che viene ricordata come la campagna più cattiva dell’era moderna, la prima combattuta a colpi di feroci spot televisivi, orchestrati dal suo stratega Lee Atwater. Ma nella Convention di New Orleans aveva preso l’impegno che forse gli è costato la rielezione: «Read my lips, no new taxes», leggete le mie labbra, niente nuove tasse.
George era cresciuto per fare il presidente, ma l’ultimo di un’epoca che si andava a chiudere per sempre. Lo appassionava la politica estera, da buon figlio della Seconda Guerra Mondiale e della Guerra Fredda, ma gli mancava la «vision thing», ossia la moderna capacità di affascinare la gente con una qualche visione complessiva del futuro, vera o fittizia che fosse. Così, si era trovato a testimoniare dalla Casa Bianca il crollo del Muro di Berlino, poi la fine dell’impero sovietico. Aveva tracciato la linea sulla sabbia dove erano morte le ambizioni di Saddam in Kuwait, costruendo un’alleanza senza precedenti, ma poi aveva rinunciato a marciare su Baghdad, per il rispetto degli impegni internazionali presi. Aveva cacciato Noriega da Panama, costruito il libero mercato Nafta con Canada e Messico, e dato via libera all’operazione per sfamare e possibilmente liberare la Somalia. Vedendo la storia che cambiava davanti ai propri occhi, aveva immaginato un «nuovo ordine mondiale», basato sulla politica estera tradizionale repubblicana, il realismo dei suoi amici James Baker e Brent Scowcroft, persino la collaborazione stretta con l’Onu, che poi sarebbe diventato fumo negli occhi per l’altra corrente repubblicana dei neocon.
Si era dimenticato la «vision thing», però, e l’economia che frenava mentre lui cambiava il mondo. Aveva alzato le tasse, tradendo nel Gop gli antenati del Tea Party. Così Clinton era riuscito a cacciare dalla Casa Bianca il presidente che aveva concretizzato i successi di politica estera di un’intera generazione. George aveva battuto Gorbaciov, ma si era fermato davanti a Bill, guardando con aria distratta il proprio orologio, durante un dibattito televisivo sulla riforma sanitaria e l’occupazione, che avrà trovato noiosissimo.
La rivincita se l’era presa nel 2000, diventando il secondo presidente americano a vedere il figlio che prendeva il suo posto, dopo John Adams. George junior era il pargolo scavezzacollo, mezzo alcolizzato, l’ultimo che sembrava destinato a seguire le orme del padre: durante una cena di Stato, infatti, si era presentato alla regina Elisabetta come la pecora nera della famiglia. Da presidente, poi, aveva dato qualche dispiacere al genitore, facendosi influenzare dalla corrente neocon, ma lo aveva riscattato rovesciando Saddam. Eppure quando la gente guarda indietro, almeno a leggere i sondaggi, rivaluta la presidenza di George senior e rinnega quella del figlio. Estraneo alla politica dell’insulto, delle urla e della divisione, nelle elezioni del 2016 aveva votato per Hillary Clinton, la moglie del suo ex rivale, definendo Trump un «blowhard», un gradasso. Il risentimento forse nasceva anche da come Donald aveva trattato suo figlio Jeb, durante le primarie del 2016. E però, a conferma di un carattere ormai perso nella politica contemporanea, prima di morire ha chiesto alla propria famiglia di invitare Trump al suo funerale.Paolo Mastrolilli•••
la Repubblica WASHINGTON In appena un quarto di secolo, fra l’uscita dalla Casa Bianca di George Bush il Vecchio nel 1993 e l’ingresso di Donald J. Trump nel 2016 si consuma la parabola della Destra americana dall’internazionalismo prodotto dalla guerra al provincialismo isolazionista sconfitto dalla pace. Con “Poppy”, come in casa Bush chiamavano l’ex presidente scomparso ieri a 94 anni, se ne va una concezione moderata, tradizionalista, quasi aristocratica del conservatorismo americano spazzato via dall’uragano populista e villano di Trump. I Bush sono, e sono stati per decenni, molto ricchi, ma il pensiero d’innalzare il proprio nome sulla cima di grattacieli in lettere dorate li avrebbe fatti svenire, quanto quella di scatenare da soli una guerra commerciale. Era l’ultimo campione della Great Generation, la grande generazione che vinse, non soltanto per se stessa, il duello mortale contro l’Asse del Male e poi si sentì abbastanza sicura di sé per accettare la Cina Comunista nel concerto delle nazioni. Non a caso proprio lui fu il primo rappresentante ufficiale degli Stati Uniti a Pechino. “Poppy” è stato l’irripetibile incarnazione di quella aristocrazia bianca, protestante, anglosassone, con radici profonde più dell’esistenza degli Stati Uniti e con lontane parentele con le famiglie reali inglesi che non doveva nascondere il proprio privilegio dietro l’esagitazione demagogica. «Meno volte userai il pronome “io” e migliore sarai», gli aveva insegnato Dorothy, la madre. Ma le fortune famigliari dei Bush, una dinastia che ormai largamente oltrepassa quella dei Kennedy avendo prodotto ben due presidenti, e due governatori di stati, che possono tracciare la propria genealogia fino al reverendo emigrato dall’Inghilterra nella seconda metà del ’600, e vantano cuginanze di 17° grado con il futuro re William, risalgono tutte alla Costa Atlantica, non al petrolio che lui trovò a Odessa, nel Texas. Fu tra il Vermont e il New Hampshire, dalla bottega di fabbroferraio aperta dal figlio del reverendo patriarca fino alla spregiudicatezza finanziaria del padre, Prescott Bush, a Wall Street, che la dinastia sarebbe prosperata. Poppy era nato «con il cucchiaio d’argento in bocca», come si dice dei figli benedetti dal Dio del dollaro, come Trump ereditiere delle fortune immobiliari del padre, accolto per meriti famigliari nei migliori licei e poi a Yale. Addestrato come aviatore di Marina e divenuto il più giovane tenente pilota di tutta la flotta, Bush fu abbattuto dai caccia giapponesi sopra l’isolotto di Chichi-jima, nel Pacifico, e miracolosamente ripescato da un sottomarino americano Approfittò della licenza seguita a quel naufragio per sposare la ragazza che aveva incontrato a un ballo di società prima di andare al fronte, Barbara Pierce. La donna che sarebbe stata sua moglie per 72 anni e che l’ha preceduto nella morte. Il solo pensiero di aggirare la leva con gli strumenti dello studio o con la minuscola imperfezione a un dito del piede che permise a Trump di schivare il Vietnam, avrebbe inorridito una famiglia dove si predicava la coniugazione – molto calvinista – fra l’esercizio del dovere e il successo, per il momento terrestre. Il vecchio Bush era establishment nel distillato più puro, quell’establishment che non avrebbe mai accolto Donald Trump, sempre visto come un esibizionista sbruffone, un’esclusione che spiega e alimenta la rabbia del Presidente in carica, da lui mimetizzata e strumentalizzata come “rabbia popolare”. Pessimo oratore, impaziente ascoltatore, sarebbe stato crocefisso alle sue leggendarie gaffe. La sua occhiata nervosa all’orologio al polso, durante un dibattito contro il seducente, ma verbosissimo Bill Clinton, fu colta dalle telecamere, che lo trafissero. Si era preso del wimp del mollaccione, ma non lo era affatto, un wimp. Mentre tutti i repubblicani fuggivano da Richard Nixon come da un untore nei primi Anni ’70, Bush, senatore, accettò la presidenza del partito, tra gli sguardi di condoglianze dei colleghi. Non esitò ad aumentare le tasse, dopo avere giurato di non farlo, per non sfasciare il bilancio nazionale sconquassato da Reagan, pur sapendo che quella decisione gli sarebbe costata la Casa Bianca. E quando, nell’agosto del 1990, Saddam Hussein credette di potersi annettere impunemente il Kuwait seppe costruire una coalizione globale, paesi arabi inclusi, che diede alla “Tempesta nel Deserto” quella rispettabilità e legittimità internazionale che l’avventurismo della “Coalizione dei Volenterosi” imbastita dal figlio George W. per invadere l’Iraq non avrebbe mai avuto. Alla luce di quello che il Partito Repubblicano americano è diventato, occupando le praterie di rancore, di razzismo e di collera aperti dai Democratici, in lui c’è il rimpianto di un tempo di individui privilegiati, ma non egoisti, potentissimi, ma non prepotenti, forti, ma non arroganti. Poppy perse le elezioni contro Clinton per l’enorme fetta di voti conservatori portati via dagli Indipendenti di Ross Perot, e questo dopo avere conosciuto un indice di approvazione mai raggiunto prima o dopo, l’89 per cento. Si ritirò con il consueto aplomb, a Houston, non nella più sfacciata Dallas, dove ora vive George Figlio, concedendosi soltanto qualche bravata pubblica, come il lancio con il paracadute per il novantesimo compleanno. Se ne è andato chiuso nel pudore del potere e dei propri sentimenti al punto di non avere mai voluto rivelare di avere portato al collo per cinquant’anni una medaglietta con una semplice scritta: “Per amore di Robin”, la sua prima figlia, uccisa dalla leucemia a quattro anni. Con la sua Great Generation aveva costruito e preservato quell’America che ora Trump cerca, con diligente incoscienza, di demolire.Vittorio Zucconi•••Corriere della Sera
NEW YORK 1966: il presidente Lyndon Johnson arriva a Houston per sostenere il candidato democratico del Texas che cerca di sottrarre il seggio del Congresso a George H. W. Bush, il deputato repubblicano in carica. Bush manda tutto il personale del suo ufficio elettorale in strada ad applaudire il presidente che è venuto ad attaccarlo. Un piccolo aneddoto che, però, dice molto di quanto è cambiata in pochi decenni la politica americana: stile e sostanza. Non è un caso che un personaggio che, prima di conquistare la presidenza, era stato un ricco petroliere, il capo della Cia negli anni in cui la sinistra guardava ai servizi segreti con ostilità e il vice di un Reagan adorato dalla destra più conservatrice, riceva, al momento della sua scomparsa, omaggi più calorosi dai democratici che dai repubblicani.
Barack Obama piange «il patriota e l’umile servitore dello Stato al quale dobbiamo gratitudine immensa», mentre è caloroso anche l’elogio di Bill Clinton (che lo sconfisse nel ‘92 in una dura campagna presidenziale), quello di Al Gore e di altri leader progressisti. Anche i repubblicani rendono, ovviamente, omaggio a un loro presidente, ma in modo più asciutto. Donald Trump ha deciso di prendere parte al suo funerale e ha emesso un comunicato nel quale rende onore allo statista dopo averlo elogiato nei primi tweet soprattutto per le sue doti umane e l’attaccamento alla famiglia.
Probabilmente un riflesso della ruggine che c’era tra i due presidenti: Trump arrivato alla Casa Bianca criminalizzando il vecchio establishment incarnato, a destra, proprio dalla famiglia Bush. E George senior che, pur nel suo stile misurato, non mancava di far trapelare il suo disprezzo per il modo brutale di fare politica di Trump che una volta, abbandonata la tradizionale discrezione, definì addirittura uno sbruffone.
In una carriera pubblica durata quasi 70 anni il 41esimo presidente degli Stati Uniti, scomparso a 94 anni, è stato il protagonista di un’America ormai spazzata via: quella nella quale i politici, che fossero di destra o di sinistra, condividevano gli stessi valori, avevano un’etica comune. Magari capaci di sacrificarsi, non solo a parole, per il loro Paese. E abituati a governare tenendo nel dovuto conto competenza e moderazione.
Una dedizione che Bush mostrò fin dagli anni giovanili: figlio di un senatore del Connecticut, cresciuto nella ricchezza e pronto ad entrare nelle università più blasonate d’America, a 18 anni mollò tutto, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, per arruolarsi in Marina. Fu il più giovane pilota della Us Navy. Decorato come eroe di guerra dopo essere stato abbattuto sul suo aereo nel 1944.
Finito il conflitto si laureò a Yale e poi si trasferì in Texas dove a 40 anni era già un petroliere milionario. Ma la politica lo attirava più del business: due mandati al Congresso, poi i ruoli diplomatici come ambasciatore degli Usa all’Onu e poi in Cina, quindi capo della Cia. Dopo gli anni a fianco di Reagan come suo vice, l’elezione, nel 1988, a presidente. Alla Casa Bianca per un solo mandato, ma in anni intensissimi per la politica estera americana e mondiale: oggi viene ricordato soprattutto per la Guerra del Golfo del 1991 che lo vide protagonista assoluto, ma George H. W. alla Casa Bianca ha chiuso l’era della «Guerra fredda» e ha gestito con saggezza la stagione della caduta del Muro di Berlino e del collasso dell’Urss, fino alla riunificazione delle due Germanie. E ha dato un contributo importante al disarmo col Trattato per la riduzione delle armi strategiche del 1991.
Dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, Bush senior seppe costruire una coalizione vastissima, quasi planetaria, contro Saddam Hussein. Quella del gennaio ‘91 fu un guerra-lampo. Ma, liberato il Kuwait e distrutto l’esercito iracheno, il presidente americano fermò l’avanzata prima di arrivare a Bagdad. La sua rinuncia a detronizzare il dittatore iracheno a quel tempo suscitò molte perplessità. Lui la spiegò con la volontà di non creare una forza d’occupazione permanente: se avessero occupato la capitale, gli americani avrebbero poi dovuto governare l’Iraq. È quello che farà 12 anni dopo il figlio George junior, 43esimo presidente americano. Con risultati disastrosi che, a posteriori, hanno restituito dignità alle scelte politiche di un presidente oggi considerato un grande leader della politica estera Usa.
Nonostante i suoi successi internazionali, Bush senior perse le elezioni del 1992, tradito dalla crisi economica interna e dal suo atteggiamento, percepito dalla gente come troppo freddo e aristocratico. Alle prese con cittadini che si sentivano impoveriti, li confortava con messaggi di comprensione brevi e algidi come un telegramma. Fu sconfitto da uno sconosciuto governatore dell’Arkansas che, però, sapeva raggiungere il cuore della gente: «Sento la vostra sofferenza». Fino al celebre sberleffo: «It’s the economy, stupid». Il baby boomer Clinton al posto dell’ultimo leader della generazione della guerra mondiale.
Massimo Gaggi
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S ebbene fosse stato un eroico pilota della Seconda guerra mondiale, un ex capitano della squadra di baseball di Yale e un petroliere, una figura potenzialmente carismatica, Bush padre fu un anacronismo nell’America a cavallo del ’90, e sarebbe del tutto fuori posto in quella odierna. Gli americani non videro oltre all’apparenza, quella del wasp, il bianco anglosassone protestante, dell’esponente dell’establishment politico repubblicano moderato, del gentiluomo del passato, del povero comunicatore schiacciato tra maestri della comunicazione, il predecessore Ronald Reagan e il successore Bill Clinton. Per la destra del partito, che lo affossò alle elezioni del ’92 dando il 20% dei voti al suo nemico interno, il miliardario Ross Perot, George H. W. Bush fu anzi un whimp, un debole, uno out of touch, non in sincronia con la gente, due etichette di cui non riuscì a liberarsi.
La sua «America first» Io lo ricordo diversamente. Degli otto presidenti americani di cui scrissi in oltre 35 anni in America – gli altri furono Richard Nixon, Gerald Ford, Jimmy Carter, Ronald Reagan, Bill Clinton, Bush figlio e Barack Obama – George H. W. Bush fu uno dei più preparati e stimati dai leader stranieri. È vero che non seppe dire quanto costasse un litro di latte e che fu prono a gaffe, come quando a un dibattito elettorale si lasciò scappare in un microfono acceso di aver «preso a calci quel culetto», la cui proprietaria era la democratica Geraldine Ferraro. Ma rispetto ad altri presidenti i suoi furono peccati veniali. Per Bush padre fu sempre «America first», ma non nell’interpretazione di Trump. La mise davanti a sé alle elezioni quando aumentò le tasse per risanare il bilancio, pur sapendo che gli sarebbe costato caro.
Le crociere Dai tempi di Nixon, che chiamava sprezzantemente il loro aereo «lo zoo», i corrispondenti stranieri accreditati alla Casa Bianca seguono i presidenti americani in giro per il mondo. George H. W. Bush, che ebbe un occhio di riguardo per l’Italia, il primo Paese europeo da lui visitato dopo la sua elezione, fu il più accessibile, forse anche perché non c’era ancora l’incubo del terrorismo. Se il programma prevedeva brevi crociere fluviali, si mescolava a noi per scherzare di cucina («Odio i broccoli») e di sport («Ma vi piace il baseball?») o per mandare i saluti ad amici come Gianni Agnelli. Non si negava neppure in incontri occasionali a Washington. Una sera che un gruppo di noi si trovò al tavolo accanto al suo al ristorante, a fine pasto venne a salutare le signore.
Amicizia bipartisan La prassi vuole che il vincitore delle elezioni si proclami «il presidente di tutti gli americani». A differenza di Trump, Bush padre cercò il dialogo con i democratici, dimostrandosi pragmatico e realista, e strinse un’amicizia bipartisan con Clinton dopo che questi lasciò la Casa Bianca. La sua maggior virtù fu di avere scelto un segretario di Stato, James Baker, e un Consigliere della sicurezza nazionale, Brent Scowcroft, equilibrati e capaci. Si deve a loro, oltre che a Gorbaciov e a papa Giovanni Paolo II, se il crollo dell’Urss non portò a bagni di sangue e se la prima guerra dell’Iraq non causò il disastro della seconda di Bush figlio. Nel ’93 Baker mi spiegò che Saddam era stato risparmiato per non destabilizzare l’intero Medio Oriente. George H. W. Bush non fu uno dei due o tre più grandi presidenti ma fu certamente uno dei più sottovalutati. In un’intervista mi disse che aveva attributo grande valore ai rapporti personali con i leader mondiali e aveva nutrito un affetto genuino per alcuni, come Gorbaciov, una nota di umanità da lui sempre nascosta con cura. Gli parlammo per l’ultima volta al ricevimento di Natale del ’92 per la tradizionale foto davanti all’albero, di fianco a uno splendido presepe verticale napoletano. Un mese dopo, entrò alla Casa Bianca il vulcanico Clinton.
Ennio Caretto
•••«All’uscita mi afferrò letteralmente per un braccio e mi trascinò in uno studio…». Ciriaco De Mita, 90 anni, segretario della Democrazia Cristiana dal 1982 al 1989 e presidente del Consiglio dall’aprile 1988 al luglio 1989, ebbe più occasioni di incontro con George H. W. Bush. I due si conobbero prima che l’ex direttore della Cia ed ex ambasciatore all’Onu fosse eletto presidente degli Stati Uniti. Ed è da quel periodo che partono i ricordi del capofila della sinistra democristiana italiana sul patriarca della più importante dinastia di repubblicani americani.
Dove la trascinò Bush?
«Nella prima metà degli anni Ottanta andai dall’allora presidente Ronald Reagan. Alla fine di un colloquio gli chiesi di occuparsi del Cile. Bush era vicepresidente. All’uscita mi afferrò letteralmente per un braccio e mi trascinò in uno studio».
Il Cile a quei tempi era ancora sotto la dittatura del generale Augusto Pinochet.
«Bush voleva sapere perché mi interessavo di Cile. Provai a spiegarlo e mi disse: “Ma perché non si occupa della libertà di tutti i Paesi?” Risposi: “No, mi occupo di quelli nei quali c’è il problema della libertà”. La conversazione fu lunga. Poi Bush concluse: “Noi tra un dittatore di destra e uno di sinistra preferiamo un dittatore di destra”».
Come Pinochet. E lei?
«Per dare un’idea, io sono uno che dai giovani democristiani cileni ricevette la richiesta di 50 milioni di lire. Li volevano per aprire una radio clandestina. E alla direzione della Dc spiegai che avevo accettato di fornirli: perché se una radio o una tv per fare una rivoluzione costava 50 milioni, il costo della campagna per l’elezione di un consigliere comunale comportava la spesa di una cifra molto più alta».
Questo però immagino che non lo disse a Bush.
«Sui dittatori si era espresso in quel modo, ma dobbiamo evitare letture sbagliate. Più tardi, quando a causa di un problema interno la Dc cilena rischiava una rottura, gli americani mi chiamarono affinché io intervenissi: sul Cile avevano cambiato posizione. Intervenni. La rottura nella Dc non ci fu».
Quando Bush era presidente e lei guidava il governo italiano, a Mosca Michail Gorbaciov aveva già compiuto la svolta che si sarebbe conclusa con il dissolvimento dell’Unione Sovietica, anche se a inizio 1989 non era scontato che l’Urss finisse come avvenne nel 1991. In quali termini ne parlavate?
«Una volta Gorbaciov voleva partecipare a un vertice del G7 (i sette Paesi con le economie più sviluppate del mondo, ndr). La premier britannica Margaret Thatcher si era espressa contro, io a favore. Alla fine non venne. Un’altra volta Bush prese in considerazione una mia proposta sulle obiezioni del ministro degli Esteri tedesco a rinnovare i missili americani nel suo Paese. Agli Stati Uniti occorreva un rinnovo per dare il via a commesse. Io immaginai che la formula potesse essere decidere il rinnovo facendolo rimanere un atto amministrativo. Il rapporto confidenziale si è realizzato poi a Parigi».
In occasione del G7 del 1989?
«Sì, dopo una discussione su Gorbaciov. In una pausa dei lavori mi fece una domanda molto strana: come mi considerava mia madre. Risposi: “Come un figlio”. Gli spiegai il rapporto. Bush disse: “Eppure mia madre mi considera ancora un bambino”. I nostri colloqui erano anche così. Facevo in modo che alle feste di compleanno potesse usare Aglianico dell’Irpinia. Glielo fornivo tramite l’ambasciatore».
Maurizio Caprara