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 2018  novembre 30 Venerdì calendario

Intervista a Nanni Moretti

In Cile l’11 settembre del 1973 un golpe rovescia il governo di Salvador Allende. Il presidente socialista per non cadere nelle mani dei militari, che bombardano il palazzo presidenziale della Moneda, si suicida. Il potere passa nelle mani del generale Augusto Pinochet, iniziano le retate di dissidenti politici, le torture, le sparizioni. A Roma il presidente del Consiglio si chiama Mariano Rumor, nel suo governo ci sono figure come Antonio Giolitti e Ugo La Malfa, agli Esteri c’è Aldo Moro.
A Santiago quel giorno non c’è l’ambasciatore, nella rappresentanza italiana ci sono solo due giovani diplomatici, Piero De Masi e Roberto Toscano. Quando alla porta bussano i primi ragazzi che fuggono dai militari decidono di aprire e accogliere. L’ambasciata italiana diventerà in poche settimane l’unico rifugio, un’isola di salvezza. Chi fugge, per entrare, deve saltare il muro di cinta, ma se ci riesce trova scampo. La grande villa e il parco si trasformano per un anno in una comune dove si mangia e si dorme ovunque, dove si preparano lasciapassare per i richiedenti asilo, dove si organizzano i trasferimenti per l’aeroporto. In seicento riusciranno a salire su un volo per l’Italia con la complicità mai dichiarata di quel ministro degli Esteri che, in una sorta di democristiano silenzio-assenso, non risponderà mai alle richieste di autorizzazione all’accoglienza che arrivano da Santiago.
Tre anni dopo Mia madre Nanni Moretti torna al cinema con un film documentario per raccontare questa storia. “Tutto è cominciato nella primavera dell’anno scorso, ero a Santiago per una conferenza e l’ambasciatore italiano mi ha raccontato dei due giovani diplomatici che decisero di accogliere i dissidenti politici. Ho scoperto una bella storia italiana di accoglienza e di coraggio, un esempio di come le singole persone possano fare la differenza. Era una storia dei miei vent’anni, allora ho ripensato all’importanza che aveva avuto in quel tempo l’esperienza cilena, la figura del presidente Allende e poi lo sconvolgimento del golpe. Così mi sono messo a lavorare, quaranta ore di interviste, non solo per parlare del Cile ma anche dell’Italia di allora, del Paese che più li aiutò”.
Nanni Moretti è seduto alla scrivania del suo studio, alle spalle una grande finestra con uno scorcio di Roma, di Monteverde vecchio, il quartiere dove continua a vivere e lavorare, dove la sua presenza è talmente consueta da far parte del paesaggio. È tutto così rassicurante e familiare che ci si potrebbe dimenticare cosa accade fuori e illudersi di essere ancora negli anni Novanta e immaginare un altro giro in Vespa. Sui muri le locandine dei suoi film, tra le mani un vecchio cubo di Rubik, serve forse a dare forma alle ansie che continua a dargli la sola idea di fare un’intervista.
Perché parlare del golpe in Cile oggi?
"Mentre giravo me lo chiedevano spesso e non sapevo bene cosa rispondere. Poi, finite le riprese, è diventato ministro dell’Interno Matteo Salvini e allora ho capito perché avevo girato quel film. L’ho capito a posteriori”.
Ci sono le testimonianze commosse di come i cileni venivano accolti con generosità, del lavoro nei campi in Emilia, in fabbrica a Milano, dei corsi di italiano, delle serate di musica andina per curare la nostalgia. Decisamente un’altra Italia.
"Molti associano gli anni Settanta solo con il terrorismo, li si chiude nella definizione “Anni di Piombo”, ma è un errore perché non sono stati solo questo ma tante altre cose. Devo dire che quei racconti mi hanno stupito, ho provato un raro momento di orgoglio nazionale. Al montaggio mi sono reso conto che, senza che lo avessi programmato, il film comincia parlando del Cile di allora e finisce parlando, involontariamente ma non casualmente, dell’Italia di oggi”.
E tu cosa facevi allora?
"Avevo appena compiuto vent’anni, andavo alle manifestazioni di solidarietà con il popolo cileno, con un po’ di disincanto ma le ho fatte tutte”.
Perché con disincanto?
"Ero già un po’ deluso da un’esperienza politica che si era consumata ed era finita l’anno prima. Negli ultimi anni del liceo ero stato in un gruppo extraparlamentare sì, ma “moderato”... Era un gruppo trotzkista libertario, meno dogmatico degli altri, che pubblicava una bella rivista che si chiamava Soviet”.
Lo ascolto e non riesco a non pensare al pasticcere trotzkista citato in Caro diario, ma a Nanni Moretti quelle divisioni degli anni Settanta appaiono fondamentali per definire chi si era e chi poi si è diventati. Un quarto di secolo fa diceva: “Voi gridavate cose orrende e violentissime e voi siete imbruttiti, io gridavo cose giuste e ora sono uno splendido quarantenne!”. Oggi che di anni ne ha 65 scandisce con lo stesso orgoglio: “Io non sono mai stato filosovietico e nemmeno filocinese. Mai filomaoista”.
Comunque il gruppo si era sciolto, la rivista aveva chiuso e avevi anche lasciato la pallanuoto.
"A 17 anni ero bravissimo, giocavo in serie A ed ero nazionale giovanile, ma ho abbandonato quando avrei dovuto insistere. Era come se fare politica e attività agonistica fossero cose incompatibili, nessuno te lo diceva ma questo era quello che sentivi. Lo sport, la politica, tutto mi sembrava già consumato e allora, finito il liceo, istintivamente mi sembrò che il cinema fosse il mezzo più adatto per buttare fuori quelle cose che avevo urgenza di comunicare agli altri e a me. Quando ci fu il golpe avevo appena finito di girare il mio primo filmino in Super 8. Si chiamava La sconfitta e raccontava la storia di un giovane militante extraparlamentare sullo sfondo di un’enorme manifestazione di metalmeccanici”.
Perché per la tua generazione il golpe in Cile rimane il punto di svolta con cui leggere il mondo e la politica internazionale?
"C’era una simmetria tra i due Paesi: Democrazia cristiana, Partito socialista, Partito comunista, consigli di fabbrica, sinistra socialista, sinistra rivoluzionaria (in Cile lo era davvero). Ci fu una identificazione immediata con la vicenda della sinistra cilena, per questo quel golpe ci colpì moltissimo. Era la fine di un sogno: la sinistra era andata al governo per la prima volta con libere elezioni, non con le armi. C’era una differenza enorme dalle altre esperienze socialiste, era un esperimento allegro e democratico e si stava cercando una soluzione originale che non fosse vicina all’esperienza sovietica o cinese, ma nemmeno a quella cubana. Colpisce nelle testimonianze che ho raccolto, durante le interviste, proprio l’allegria di quel periodo. Non ho fatto parlare esperti o storici ma persone che hanno vissuto sulla loro pelle quella vicenda. Persone che c’erano. Nelle loro voci si percepisce la sofferenza di quei giorni, la paura. Molti si commuovono e non riescono ad andare avanti nel racconto, dopo tanti anni è una ferita ancora aperta. E poi c’è il ruolo accertato degli Stati Uniti e di Kissinger nel colpo di Stato”.
Nonostante questo hai scelto di dare voce anche ai militari.
"Ne ho intervistati due che hanno storie molto diverse. Uno è stato militare tutta la vita e non è stato accusato di nulla, l’altro è stato invece condannato per omicidio e sequestro di persona e sta scontando la sua pena. Dicono cose opposte. Quello che sta in carcere dice “abbiamo obbedito agli ordini”, l’altro sostiene che “non ci fu nessun ordine per le torture da parte della giunta militare” e anzi rivendica il golpe sostenendo che è servito a “reinstaurare la democrazia”. Non volevo fare un documentario classicamente militante ma volevo dare la parola anche ai cattivi, mi ero fissato che volevo entrare in carcere per vedere e sentire come giustificavano quegli atti abnormi. Volevo capire umanamente come giustificassero l’atrocità del golpe”.
Che clima hai trovato a Santiago?
"Quando ho girato c’era ancora una presidente di sinistra, Michelle Bachelet, oggi anche lì ha vinto la destra e le cose stanno cambiando. Comunque ora in Cile si parla del colpo di Stato e della dittatura molto più che negli anni Novanta. Contemporaneamente al ritorno della democrazia ci fu una strana rimozione collettiva. Per poter andare avanti si diceva: non parliamo degli anni della dittatura, non provochiamo i militari, possono sempre tornare. Pensa che Pinochet, dopo il referendum perso nel 1988, ha continuato ad essere capo delle forze armate per dieci anni e senatore a vita fino al 2002. La cosa curiosa è che a Pinochet la destra ha perdonato tutto, in primo luogo le torture e le violazioni dei diritti umani, ma non di aver rubato. Ha perso l’appoggio della destra solo quando sono stati scoperti i conti all’estero”.
Nel film sono continui i rimandi e le analogie tra i due Paesi, ne vedi anche oggi?
"Oggi il Cile è diviso in due, si coltivano due memorie opposte. C’è gente che l’11 settembre, nell’anniversario del golpe, mette la bandiera sul balcone per celebrarlo. Così in Italia, dove fino a 25 anni fa c’era una memoria condivisa su antifascismo e resistenza. L’abbiamo persa negli anni di Berlusconi, da allora non c’è più un patrimonio di valori condivisi tra progressisti e conservatori e questo mi preoccupa perché, certo, ci si può dividere sulle scelte politiche ma non sui valori fondamentali. Oggi invece trionfa l’irresponsabilità, è molto in voga quel tratto arci-italiano di non prendersi la responsabilità di ciò che si dice e di ciò che si fa”.
Siamo di nuovo tornati all’Italia di oggi, da molto tempo la tua voce non si sente. Come vedi il nostro Paese?
"Ci sono forze politiche che vengono votate non nonostante la loro violenza verbale ma proprio perché ne fanno uso. La solidarietà, l’umanità, la curiosità e la compassione verso gli altri sembrano essere bandite. E questa è la cosa che fa più impressione, c’è uno slittamento progressivo ma inarrestabile verso la mancanza di umanità e di pietà. Ci si dimentica, quando si parla delle persone sui barconi in mare, che sono esseri umani. Spero non sia una strada senza ritorno”.
Il consenso per Salvini, per un’idea di chiusura del Paese cresce. Esistono antidoti?
"Salvini fa il suo lavoro di uomo di destra, di estrema destra, certo non europea e non tradizionalmente conservatrice, ma fa il suo mestiere. Sono le persone di sinistra che non riescono a fare il loro. Ho letto molti articoli sul rischio di estinzione del Partito democratico, eppure mai come oggi ci sarebbe spazio per una forza razionale, seriamente riformista ed europeista. Ma se poi loro esauriscono tutte le energie in piccoli battibecchi interni e questo diventa gran parte del loro lavoro politico, allora siamo perduti. I loro bisticci e capricci non interessano a nessuno. Devono tornare a parlare tra le persone, delle persone e con le persone”.
Dove hanno sbagliato?
"Per me è stata una cosa gravissima non aver nemmeno tentato di far passare la legge per la cittadinanza, il cosiddetto Ius soli, lasciando migliaia e migliaia di ragazzi italiani senza un’identità. È una macchia per la sinistra italiana, una battaglia di civiltà non fatta. Lo trovo incomprensibile e vergognoso. Sbagliato rincorrere la destra sulla sua agenda, cominciare a balbettare e ad avere paura anche della propria ombra. Non sono stati capaci di spiegare che una cosa erano gli sbarchi e un’altra dare la cittadinanza a bambini nati e cresciuti in Italia, bambini italiani. Hanno dimostrato non tanto che non erano di sinistra ma soprattutto che non erano capaci di comunicare, che non erano bravi a fare il loro lavoro. Lo stesso è accaduto con il reddito di cittadinanza: il Pd ha fatto una misura molto simile ma non lo ha saputo nessuno”.
Mentre parla del Pd tormenta il cubo di Rubik, non riesce a darsi pace, poi si alza e va a prendere un bicchiere d’acqua.
Perché nel documentario appari così poco? Si sente la voce ma non ci sei.
"In questa occasione non volevo esibirmi, non volevo essere protagonista”.
Però ad un certo punto, durante l’intervista al militare che sta nel carcere di Punta Peuco, entri in scena e mentre lui sta dicendo che si augura che tu non dia giudizi sulla sua vicenda tu sbotti: “Io non sono imparziale”.
"Non era voluto, l’intervista era finita e quello era uno scambio di battute fuori onda. Oggi come allora non possiamo essere imparziali. Non ho mai sopportato l’idea che l’imparzialità, la terzietà sia un valore. Per troppo tempo si sono messe sullo stesso piano le goffaggini del centrosinistra e un uomo come Berlusconi che, per sua indole, era estraneo a una cosa chiamata democrazia e invece ogni tanto veniva considerato addirittura uno statista. Non sono imparziale sul golpe e non lo posso essere oggi. Non possiamo essere imparziali di fronte a quello che accade”.
Nel tuo film come nelle tue parole c’è il richiamo al valore dei comportamenti individuali.
"In Italia la colpa è sempre degli altri, non ci assumiamo mai le nostre responsabilità. Anche le folle che gridano “Onestà, onestà” stanno pensando agli altri che devono essere onesti, non a loro stessi. Invece ci vuole un’assunzione di responsabilità da parte di tutti, dei singoli. Ho trovato un bel segnale che sei donne senza simboli di partito abbiano organizzato una manifestazione in Campidoglio il mese scorso”.
Cosa pensi della sindaca Raggi tu che vivi a Roma?
"Ora tutti si stupiscono dell’incompetenza, ma la si è teorizzata per anni e adesso ne vediamo il risultato. Fare politica è un mestiere ed è anche un mestiere difficile. Quando teorizzi che al massimo si possono fare due mandati, una cosa che io non capisco e che ha contagiato anche il Partito democratico, ti metti immediatamente su una strada che porta al rifiuto della competenza”.
Da dove nasce questa tendenza?
"So di non fare testo, perché non sono su Twitter e su Facebook, però credo che in questa arroganza ignorante di oggi la rete abbia svolto un ruolo, eccome se lo ha svolto, in questo odio per la competenza, per il sapere, per cui tutto è casta, tutto è élite da abbattere”.
Perché hai deciso di portare il tuo film al festival di Torino?
"Ho rifiutato festival considerati più importanti per andare a Torino: è un festival a cui sono molto legato e sono felice di presentare Santiago, Italia lì nella serata finale, poi dal 6 dicembre andrà nelle sale. Sono curioso di vedere cosa succederà, non verrà distribuito in tantissime copie ma avrà un’orgogliosa uscita nei cinema”.
Sembra quasi un gesto di resistenza.
"Io vivo come prima, per informarmi la mattina leggo i giornali e la sera vedo il telegiornale, come prima vado a teatro e al cinema, gioco a tennis, per comprare un libro vado in libreria, per comprare un cd vado nei negozi di dischi, e in più ho una sala cinematografica. Mi fa impressione l’idea che questa abitudine di andare al cinema possa scomparire, non è solo un fatto culturale, è un fatto sociale. Quando abbiamo aperto il Sacher nel 1991 avevamo il triplo degli spettatori rispetto a oggi. Nei centri storici il fenomeno è micidiale, si chiudono le sale in favore di multisale nei centri commerciali fuori dalle città, da cui un pubblico anziano è escluso. Molti fanno appelli quando i cinema chiudono, dovrebbero andarci quando sono ancora aperti”.
Cosa pensi del cinema senza i cinema?
"Anch’io ogni tanto guardo delle serie su Sky e su Netflix. Ora, siccome sono ignorante, sto guardando una serie di documentari sulla Seconda guerra mondiale. Sto facendo i compiti, il ripasso. Certo, il fatto che un film molto cinematografico come quello di Cuarón, che ha vinto il Leone d’oro a Venezia, dopo soli tre giorni al cinema vada su Netflix, mi fa un po’ impressione. Io come spettatore sento ancora intatta la voglia di farmi raccontare storie dagli altri e di vederle al cinema, ma forse sono un arnese del passato. Mi sembra che molte persone, senza accorgersene, abbiano peggiorato la qualità della loro vita. Io preferisco vivere così e continuerò a farlo”.