il venerdì, 23 novembre 2018
Intervista a Enrico Vanzina sul suo nuovo cinepanettone
Più o meno riusciti, divertenti o memorabili, da quando nacquero – 35 anni fa – i cinepanettoni sono i film che l’Italia si merita. Se non ne siamo ancora fuori, è tutto salvo che colpa loro. Però quest’ultima creatura appartiene all’aureo filone solo nel titolo, Natale a 5 Stelle, dove le stelle non sono quelle di un grande albergo, che pure nello script non manca. È una farsa satirica. E perciò si ride. A cominciare dai titoli di testa. “Questo film è opera di fantasia. Il riferimento, anche indiretto, a personaggi realmente esistenti costituisce solo lo spunto per rappresentare fatti ed eventi di pura invenzione”. La formula di prammatica non è mai stata tanto comica. Perché in Natale a 5 Stelle c’è un premier (Massimo Ghini, in notevole forma) che non è Giuseppe Conte, no, per carità, però – combinazione – ha un filo truccato i titoli di studio nel curriculum, e sta in fissa con parole tipo “legalità”, “sobrietà”, “trasparenza”, ed è un po’ vaso di coccio in mezzo a due litigiosi alleati di ferro che non vediamo, ma – coincidenza – si chiamano uno Matteo e l’altro Luigi. C’è anche una bionda e procace deputata dell’opposizione (Martina Stella) che ha un accento toscano alla Maria Elena Boschi, però, tranquilli, non è lei, se non altro perché si è formata politicamente come concorrente dell’Isola dei famosi.
Ora, durante un viaggio ufficiale a Budapest, il premier-che-non-è-Conte e la deputata-che-non-è-la-Boschi si ritrovano nella stessa suite per il semplice motivo che sono amanti, o meglio vorrebbero esserlo: mentre stanno per quagliare scoprono nella stanza il cadavere di uno sconosciuto, per giunta vestito da Babbo Natale. Da lì, giù equivoci, infortuni, agnizioni... Insomma tutto l’arsenale delle pochade. Basata sulla british comedy di Ray Cooney Out of Order (in italiano Fuori di testa), «la sceneggiatura iniziale l’avevo scritta con mio fratello Carlo che però non ha potuto firmarla perché il contratto è stato concluso dopo la sua scomparsa, l’estate scorsa» racconta Enrico Vanzina. La regia è passata a Marco Risi: «Lo conosco fin da ragazzino, ha diretto il film come lo avrebbe fatto Carlo».
Nell’originale inglese il protagonista è un Primo ministro genericamente britannico, nel film invece la politica è precisamente quella italiana di adesso.
«La commedia di Cooney, che nei teatri continua a essere un enorme successo, è sospesa nel tempo. Mentre con Carlo volevamo fare un film che parlasse dell’attualità. Siccome sui media ricorre spesso la formula ’sta storia politica sembra uscita da un film dei Vanzina, con Carlo ci siamo detti: facciamo il contrario, mettiamo la politica in un nostro film».
Film che ha il Natale nel titolo e che però non è un cinepanettone, parola che lei “aborrrre”, direbbe quello.
«No, è una farsa nella quale, con leggerezza, si prendono in giro non tanto i 5 Stelle o la Lega, ma un sistema politico che s’è incartato».
S’è incartato perché?
«Soprattuto per mancanza di competenza. A qualsiasi parte appartengano, gli uomini del “rinnovamento” sembrano non avere più i fondamentali. Domina l’improvvisazione».
Tanto il premier (Ghini) quanto la deputata (Stella) sono due miracolati.
«Lui è commercialista, lei è partita dai reality. Ognuno di loro sa da dove viene e da dove viene l’altro. Mentono tutti perché è questa la legge della commedia».
Sotto sotto, a legarli è la disistima, vanno a letto insieme ma si fanno schifo.
«È il “ma mi faccia il piacere” di Totò... L’italiano pensa sempre che dietro a un uomo importante ci sia un impiccio, un magheggio. Per gli italiani è impensabile che uno diventi importante senza impicci. In Italia si disistima a prescindere».
Da umorista, tra questi nuovi politici chi la diverte di più?
«Conte è fenomenale. Sembra che gli passi sempre tutto sopra senza spettinarlo... “Non preoccupatevi, calma, calma...”. Una calma molto poco italiana».
Salvini.
«Affascinante. Mostra i muscoli, fa l’agit prop populista ma, quando va alla lavagna, non sa spiegare il sovranismo ai bambini. Però anche così riesce a tenere tutti in scacco».
Di Maio.
«Stupendo. Non si è ancora capito quale anima del Movimento rappresenti, ma va avanti con quei sorrisi meravigliosi, quei mantra sublimi, ripete che loro stanno facendo quello che dovevano fare».
Di Battista.
«Personaggio da grande letteratura antica. L’esule che lancia anatemi dall’estero, il console che è in esilio però aleggia su qualsiasi cosa».
A scanso di rogne, e perché non vi accusino di faziosità, nel film ce n’è per tutti. Il premier definisce Renzi «il più grande contaballe dal dopoguerra».
«Eppure io a un certo punto a Renzi avevo creduto, stavo per votarlo, ma poi al referendum ho scelto il No. La riforma non mi piaceva. Ma a ripensarci adesso non lo so se ho votato bene. Boh».
A proposito di voto, anni fa ha detto di essere un elettore erratico: repubblicani, radicali, socialisti...
«Socialista votai solo una volta. Sono tra quelli che pensano che il vero problema di questo Paese è di non aver mai avuto un vero partito socialista. Ad ogni modo vengo da una famiglia di liberali, proprio nel senso del Pli. Però in Italia i liberali sono sempre stati quattro gatti... Siccome votarli avrebbe inciso poco, mi sono spinto verso altre sponde».
Ha scritto più di cento film, molti campioni di incassi. E ripete che alla fine il pubblico ha sempre ragione. Anche il popolo ha sempre ragione?
«Dipende. All’occasione posso pensare che la maggioranza del cosiddetto “corpo elettorale” abbia votato male. Però da scrittore mi piego: accetto quella scelta e cerco di raccontarla senza moralismi. Se la commedia all’italiana ha ritratto questo Paese meglio di qualsiasi altro genere è anche perché sferzava ma senza giudicare. Più tardi sarebbe diventata moralista. Oggi è ancora un po’ così».
Martina Stella è una piddina svampita e ibridata di berlusconismo. Per una ventina di minuti porta solo reggiseno, mutandine e tacchi alti. Vi diranno: sessisti.
«Ma nel film è il maschio a essere demolito».
Massimo Ciavarro è un energumeno leghista, però “de Civitavecchia” e con qualche défaillance sessuale.
«Il vero maschio della commedia all’italiana non è trombante. Leo Benvenuti diceva che, se un personaggio tromba, nella commedia c’è qualcosa che non va».
Mi lasci pronunciare di nuovo la parola.
«Quale?».
Cinepanettone. Nolenti o volenti, 35 anni fa con Vacanze di Natale voi lanciaste il genere.
«Ma di cinepanettoni ne abbiamo fatti soltanto due o tre».
La battuta «E anche questo Natale se lo semo levato dalle palle» resta scolpita nel tempo. La scrisse lei?
«Sì. E ridevo. Neil Simon diceva: scrivere commedie è bellissimo perché ridi prima di tutti gli altri».
Per la borghesia del neo-benessere anni 80 il Santo Natale era diventato un incubo.
«Pochi anni dopo, in Le finte bionde, che andò malissimo, tornammo a parlare di una borghesia che aveva sacrificato tutto all’apparire. Avevamo in mente soprattutto quella romana, che però nel degrado ha fatto da calamita a tutte le altre».
Vanziniano non era un insulto, ma la critica più intellò vi massacrava. Poi il vento girò. Da trash diventaste cult (perdoni entrambe le espressioni) e oggi vi dedicano saggi dottissimi. Uno appena uscito, e ben fatto, si apre con un capitolo intitolato: La congiunzione recursiva dei fratelli Vanzina. "Recursiva”?
«È un bel libro, però sì, diventare “di culto” può trasformarsi in una gabbia. Ma è il destino del cinema popolare: quando la critica non trova più linfa nel cinema d’autore inizia a fare le pulci a quello per il grande pubblico. Però non prendiamoci troppo sul serio. Nemmeno in quest’intervista».
Sia mai. Ridiamo. Ma la risata va difesa sempre e comunque?
«No. Detesto quelle trasmissioni alla radio dove tutti si sganasciano. Ma la cosa più difficile non è far ridere, è far sorridere. Paolo Villaggio si diceva preoccupato da quei film dove al cinema la gente ride e ride, e poi all’uscita dice: È ’na stronzata».
Comunque Natale a 5 Stelle al cinema non andrà. Prima volta in Italia, lo si potrà vedere solo online su Netflix, che l’ha prodotto.
«È arrivato il momento di parlare di Netflix?».
È arrivato. Lei che è cresciuto nelle sale come guarda al nuovo colosso?
«Allora: in Italia il film è stato rifiutato da tanti produttori pavidi. Netflix invece ha accettato di farlo. Non ci hanno chiesto di cambiare nemmeno una battuta. Hanno voluto soltanto il rispetto del budget e delle tempistiche di realizzazione. Ciò detto, se penso che Natale a 5 Stelle arriverà in 190 Paesi e che Netflix non paga i diritti d’autore, è chiaro che non posso essere d’accordo con Netflix. Però non capisco neppure il panico degli esercenti quando dicono: questi ci rovinano. La tecnologia è una brutta bestia, ma non la puoi fermare, va cavalcata. Secondo me, se un film esce lo stesso giorno su Netflix e al cinema, la sala può guadagnarci per un effetto di ritorno, perché oggi Netflix è un fenomeno e tutti ne parlano. Sbaglierò? Non lo so. Vedremo».
Misteri dell’economia. Invece lei si è laureato in Scienze politiche. Su cosa?
«Il sottosviluppo in Perù».
Un Di Battista ante litteram.
«Andai laggiù quattro mesi, a raccogliere dati».
Tesi di sinistra.
«Hmm... Diciamo antimilitarista, antiautoritaria, terzomondista».
Una ventina d’anni fa disse che il 90 per cento del cinema italiano non le piaceva. E oggi?
«Oggi non me ne piace il 95».