il venerdì, 30 novembre 2018
Intervista a Margrethe Vestager: «C’è del marcio nella Silicon Valley»
BRUXELLES. Per essere la graticola di Big Tech è splendidamente arredata. Sarà il kilim sul parquet chiaro, la dominante di blu e verde dei bei quadri alle pareti, un mobile basso letteralmente lastricato di foto delle figlie e del marito ma tutto emana hygge, il senso degli scandinavi per la convivialità. Un’oasi di calore in un palazzo i cui lunghi corridoi rivaleggiano esteticamente con una morgue. Eppure, se c’è una persona al mondo che i signori del Gafa (Google, Apple, Facebook, Amazon) hanno imparato a temere, è proprio la sapiente arredatrice di questi trenta metri quadri al decimo piano della sede della Commissione europea.
«Non la mette in soggezione trattare con manager di aziende con bilanci maggiori del Pil di uno Stato?» chiedo alla commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager (si pronuncia “Vestear”). Lei, elegante nel vestito a tubo bordeaux (si diletta di cucito: potrebbe essere una sua creazione), aguzza gli occhi cobalto e dice semplicemente «No, perché io rappresento 500 milioni di europei e me li immagino tutti alle mie spalle, a sostenermi». Una specie di Quarto Stato brussellese la cui raffigurazione mentale deve esserle venuta utile durante il corrusco chiarimento con Tim Cook, proprio al tavolo da cui sto prendendo appunti, riguardo i 13 miliardi di euro di multa comminati per un accordo scandaloso con l’Irlanda che consentiva ad Apple di versare meno dell’1 per cento di tasse. «Fra l’altro hanno pagato, in un conto deposito, proprio nelle scorse settimane» dice con malcelata soddisfazione. E se ha piegato la prima trillion-dollar company della storia, chi la può fermare?
Tra le ultime “attenzionate” Amazon: cos’ha fatto di male?
«Per il momento stiamo solo indagando. Il fatto è che Amazon ha due ruoli: ospita venditori ma vende anche direttamente. La domanda è: avere accesso a tutti i dati delle vendite e ai comportamenti sugli acquirenti la avvantaggia illegittimamente? Lo capiremo».
Si può dire ormai che la quota di dati è più importante di quella di mercato nel valutare il potenziale abuso di posizione dominante?
«Di certo lo è sempre di più. Un altro caso recente di cui ci siamo occupati è l’acquisizione di Shazam, la app per riconoscere le canzoni, da parte di Apple. I soldi in ballo non erano troppi ma anche lì in gioco c’era una messe di dati sui comportamenti musicali degli utenti. Alla fine abbiamo però stabilito che Apple non aveva colpe».
Il tema dei temi, però, mi sembra ancora quello delle tasse. Perché è così difficile farle pagare ai giganti del web?
«È un tema centrale perché, come ha calcolato l’ufficio del mio collega Pierre Moscovici (commissario agli affari economici), in media – ma sappiamo di aliquote ben inferiori – pagano il 9 per cento contro il 23 per cento delle altre aziende. È una differenza enorme e senza alcuna giustificazione. Frutto del fatto che le leggi fiscali sono antiche e vanno aggiornate. A cominciare dal quesito: come si crea il valore oggi?».
Ce lo spieghi...
«Nel caso di Google, ad esempio, il valore viene fuori dall’incontro tra la ricerca che digita l’utente e la risposta che gli fornisce l’algoritmo. Ma senza l’utente che chiede non esiste valore. E quindi se lui digita da Roma, il valore è originato lì. Bisogna aggiornare molti concetti, a partire da cosa vuol dire “presenza tassabile”. E questo aggiornamento culturale è urgente perché tutto si sta digitalizzando. Anche l’agricoltura, che sembra l’attività più terragna che si possa immaginare, ormai ha sempre più a che fare con i dati relativi al meteo, al territorio, ai pesticidi usati. Quantità digitali essenziali per l’esito di quelle fisiche».
Ma come spera di convincere Paesi come Olanda, Irlanda e Lussemburgo, che fanno del fisco vantaggioso uno dei loro export maggiori, a convenire su qualche forma di web tax?
«Nessuna trattativa sulle tasse è facile. Ricordo un collega che, quando ero ministro dell’economia in Danimarca, mi disse che sarei dovuta passare sul suo cadavere per far passare una modifica fiscale. È sempre vivo, ed è passata. C’è ovviamente bisogno di tutto il sostegno degli altri Stati membri e a questo proposito l’Italia, dopo titubanze iniziali, dà il suo contributo. E si deve soprattutto capire che una frammentazione legislativa in questa materia è un lusso che l’Europa non può permettersi».
La Silicon Valley è un posto con poche donne e tanto machismo. Nessun disagio?
«Sinceramente non ci ho mai pensato un attimo. Di certo noto il conformismo delle persone che ricevo qui, tutti in vestito scuro, con camicia bianca o al massimo azzurro chiaro, spesso con le stesse cravatte. Mi inteneriscono quasi. Mentre noi donne siamo più libere e colorate».
Tra l’altro molti di quelli che denunciano irregolarità sono americani che vengono qui perché sia fatta giustizia. Che effetto le fa?
«Intanto, sebbene ci piaccia spesso piangerci addosso, è la riprova di quanto il nostro mercato sia importante. E poi l’orgoglio di essere riconosciuti come un luogo dove la legge è prassi oltre che teoria».
L’Europa è più severa degli Stati Uniti sull’antitrust? È cambiato qualcosa tra le due ultime amministrazioni?
«Visito spesso Washington e sono parecchio curiosi di quel che facciamo. Però stimo molto le nostre controparti, abbiamo una cultura simile. Parliamo la stessa lingua. E nelle differenze tra Obama e Trump, al di là del linguaggio, non mi sembra cambiato granché».
Da quando avete imposto la Gdpr, una normativa sulla protezione dei dati sconosciuta oltreoceano, è cambiato qualcosa?
«Di certo la nostra casella di posta (ride) per la quantità di richieste di permessi che sono arrivate a ciascuno di noi. Ma ciò corrisponde a una rinnovata, ancorché coatta, trasparenza di tanti siti nel dirci finalmente cosa ci fanno con i dati che gli affidiamo. Tuttavia servirà del tempo per cambiare la cultura ed arrivare alla privacy by design, ovvero a un approccio (già nella scrittura dei programmi e delle app) che dia per scontato il rispetto delle informazioni degli utenti. Per non dire della fase successiva, ma che deve partire oggi, di un settaggio dei nostri assistenti digitali, Siri e le sue sorelle, che diventano l’orecchio a cui sussurriamo tutto ma devono sapere custodire le nostre confidenze». (Le segnalo che Gboard, la app di Google per scrivere più velocemente sul cellulare, chiede di poter leggere tutto ciò che è stato scritto sulla tastiera anche prima della sua installazione. Rabbrividisce e prende appunti su un quadernino).
L’ho sentita dire, a un summit tecnologico a Lisbona dove venne accolta come una star, che dobbiamo “riprenderci la nostra democrazia”. I social media sono così pericolosi?
«Sono luoghi dove la passione tende ad avere la meglio sulla razionalità. Ma se tutti urlano è difficile, se non impossibile, dialogare. La conversazione è costruire ponti, mentre il grido funziona come un muro. I troll, i manipolatori, i falsari sono specialisti nel sabotare il discorso pubblico».
La cui tonalità è comunque cambiata parecchio di recente, basti pensare all’Ungheria, alla Polonia, all’Italia di Salvini. Da qui la preoccupano?
«Mi spaventano tutti i movimenti politici che sostengono che dovremmo non apprezzare alcune persone sulla base del colore della pelle, della razza o della religione. Invece di mettere quelle etichette semplificatrici farebbero molto meglio a concentrarsi sull’istruzione e la lotta alle disuguaglianze, veri responsabili della crisi dei nostri ceti medi».
Disuguaglianze che Big Tech, con la sua tendenza all’oligopolio, ha contribuito ad approfondire...
«La disuguaglianza è un problema vasto. Di certo si può constatare che, di fronte a una maggiore concentrazione nella proprietà di aziende, anche i profitti sono molto più concentrati di una volta. E il mondo tecnologico è particolarmente concentrato. Così per i dipendenti diventa difficile avere un’equa parte della ricchezza che producono. I salari stagnano da tempo. E questo è un problema enorme. Se contribuisci alla creazione di valore devi esere remunerato in maniera equa, e oggi non è così. Personalmente vengo da un Paese, la Danimarca, che resta tra i meno disuguali d’Europa. E ciò influisce molto sulla nostra invidiabile qualità della vita».
A proposito, lei sembra universalmente rispettata a Bruxelles e ha sponsor come il presidente Macron, che la vedrebbe bene come presidente della Ue. Ma a Copenaghen il governo non sembra favorevole a confermarla: perché?
«Banalmente perché è di un partito diverso dal mio. Sono contenta degli apprezzamenti, ma ciò che mi piacerebbe sarebbe restare qui per un altro mandato. Abbiamo iniziato un lavoro importante. C’è un capitale di conoscenza di cose complesse che non è il caso di disperdere. Ci sono tante partite da portare avanti. Sarebbe un peccato lasciarle incompiute».
Per non dire della furia normalizzatrice che potrebbe abbattersi su quest’ufficio. Non ho visto i gomitoli di lana con cui Vestager realizza calzettoni e piccoli elefanti colorati. C’è invece su un tavolo da caffè il calco di gesso di una mano con il dito medio in fuori. Gliela regalarono dei sindacalisti danesi al termine di un duro scontro sul taglio dell’indennità di disoccupazione. L’ebbe vinta lei, ma conserva il moncone come un memento a non montarsi la testa. Comunque vada a finire una donna secchiona, testarda, scandinaviamente ugualitaria, immune all’auto-monumentalizzazione sarebbe una discreta novità al timone del Vecchio continente.