il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2018
Inchiesta sull’editore John Elkann
Centodieci milioni di euro. È l’assegno che John Elkann, per conto di Fiat, ha staccato tra il 2012 e il 2013 per rimpolpare il capitale del giornale storico della famiglia, La Stampa, travolto dalle perdite nella stagione buia dell’editoria. Possono sembrare tanti, ma è un’illusione ottica per un gruppo che dal 2015 sotto l’egida di Fiat Chrysler automibiles (Fca) ha prodotto 110 miliardi di euro di ricavi. In fondo il costo della “buona stampa” assicurata dal giornale di riferimento posseduto da decenni dagli Agnelli, è solo un millesimo dell’intero giro d’affari del colosso italo-americano con la testa ormai stabilmente in Olanda. Bruscolini insomma.
Vuoi mettere quanto il giornale di famiglia ha restituito in termini di accondiscendenza su tutte le metamorfosi del gruppo automobilistico che rischiava di fallire nel 2003? E prima ancora l’enfasi posta sulla famosa marcia dei 40 mila a Torino; le stagioni delle rottamazioni auto invocate e amplificate dal giornale di famiglia come un bene non per la Fiat ma per l’economia italiana. E come non ricordare l’afflato della “bugiarda” (così era soprannominata La Stampa dagli operai Fiat negli anni 70) sul faraonico, quanto impalpabile, progetto “Fabbrica Italia”, con i suoi 20 miliardi di investimenti promessi (e mai mantenuti) per garantire l’italianità del gruppo. Si è visto come è andata a finire. L’Italia è ormai una mera appendice del gruppo volato negli Usa, che nel 2017 ha fatto utili per 3,5 miliardi, ma che usufruisce della cassa integrazione a Mirafiori come negli altri stabilimenti italiani. E, dulcis in fondo, la lunga scia di contributi pubblici di cui il gruppo Fiat ha beneficiato nei decenni. Oltre alle rottamazioni vanno messi in conto tutti gli aiuti di Stato al gruppo torinese. Secondo la Cgia di Mestre, Fiat ha beneficiato dal 1977 in poi di 7,6 miliardi di contributi per le ristrutturazioni degli impianti. Secondo Marco Cobianchi, fondatore di Truenumbers e autore di Mani bucate e American Dreams, il conto solo per gli ammortizzatori sociali concessi è di 1,7 miliardi, cui si aggiungono sovvenzioni tra stabilimenti e centri ricerca per almeno mezzo miliardo solo tra il 2004 e il 2009. Come si vede grandi benefici per un’azienda sussidiata che aveva il suo megafono sulla pubblica opinione costato un obolo di poco più di 100 milioni. In realtà il costo è stato anche inferiore. Subito dopo la ricapitalizzazione, l’editrice La Stampa è andata a nozze con il genovese Il Secolo XIX dei Perrone. L’anno scorso, poi, la famiglia si è sfilata mettendo i due quotidiani sotto il cappello della Gedi dei De Benedetti. I giornali sono stati conferiti in cambio di una quota di quasi il 5% del neonato gruppo editoriale alla Exor, la finanziaria degli Agnelli che controlla Fca. E così la sfera d’influenza ora si è allargata anche al gruppo Repubblica. Il cambio di rotta nel percorso che ha portato fuori d’Italia la vecchia Fiat si riflette anche nelle scelte editoriali, con l’acquisto – fortemente voluto da Elkann – del settimanale The Economist, la bibbia del capitalismo anglosassone.
In fondo tanta buona stampa italiana serve sempre meno per un gruppo che ha la cabina di regia in Olanda e produce ormai fatturato e utili negli Stati Uniti. Sergio Marchionne lo sapeva. L’Italia e la vecchia Europa sono state e sono ancora la zavorra del gruppo. Basti pensare che Fca Italy, la ex Fiat Auto continua a lavorare in perdita. I giornali di famiglia se ne sono guardati bene dal parlarne in questi anni. Pochi sanno infatti che nel glorioso percorso del manager con il maglione c’è un grande neo. Ciò che resta della vecchia Fiat Auto produce perdite immense. Dal 2012 a oggi quelle cumulate, pur a fronte degli aiuti pubblici e degli ammortizzatori sociali, sono state di ben 6 miliardi. Il gruppo ha effettuato versamenti in conto capitale per almeno 5 miliardi negli ultimi anni per ripristinare il patrimonio. I marchi Fiat e Lancia chiuderanno in perdita anche nel 2019 secondo Goldman Sachs. L’epopea pur gloriosa di Marchionne si è chiusa con il successo americano con Chrysler e i marchi Jeep e Ram che hanno alta redditività, pari all’8% e in linea con i principali competitor, e il profondo rosso delle attività della vecchia Europa che ha margini molto bassi e il cui buco non è mai stato risanato. La stampa di famiglia si è ben guardata negli anni dall’evidenziare questa schizofrenia, enfatizzando solo i successi.
E alla “bugiarda”, come non affiancare il primo quotidiano italiano? La Fiat ha sempre avuto un peso notevole nel Corriere della Sera.
È stata il secondo azionista dietro a Mediobanca con il 10% del capitale. L’asse con Piazzetta Cuccia ha di fatto permesso di governare per anni su via Solferino con il 24% del capitale. Il parterre del Corsera ha visto per decenni il clou del capitalismo italiano: Pirelli, Pesenti, Ligresti, Benetton, Della Valle, le Generali e Intesa, tutti a comporre quel patto di sindacato che ha stretto la sua presa formidabile sul primo quotidiano del Paese. Poi nel 2016 è arrivato Urbano Cairo, editore puro e ha sparigliato le carte. Mettendo in luce la profonda inefficienza e incapacità dei poteri forti, Fiat e Mediobanca in testa, di gestire il giornale, indaffarati nei loro business. Con Cairo sono tornati gli utili, dopo che dal 2009 al 2015 Rcs ha prodotto il buco più grande della sua Storia: 1,4 miliardi di perdite, patrimonio netto sceso da 1 miliardo a 100 milioni e debiti per mezzo miliardo. Cairo ha risanato i conti tagliando costi improduttivi e inefficienze. Segno che per i soci storici, i più blasonati imprenditori tra cui gli Agnelli, il giornale era un mezzo non un fine.
Si possono perdere soldi e anche tanti, pur di controllare il primo quotidiano del Paese. La Fiat ci ha perso anche lei qualche soldo, ma vuoi mettere i benefici indiretti del controllo di una fetta importante della “pubblica opinione”? Il capolavoro mediatico è di qualche mese fa, in quel titolo a effetto che ha campeggiato sui giornali di famiglia: Fca debiti zero. Una semplice ripresa della comunicazione del gruppo. Il debito c’è eccome, ben 16 miliardi, semplicemente compensati da altrettanta liquidità. E la prova che il debito non è sparito è in quel rating spazzatura assegnato tuttora a Fca dalle agenzie. Come fai ad avere zero debiti e un rating spazzatura? Domanda banale ma che i giornaloni si sono guardati bene dal porre.