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 2018  novembre 30 Venerdì calendario

I muri a secco patrimonio dell’umanità

«Ogni filare di viti o di ulivi è la biografia di un nonno o un bisnonno». Per questo, scrisse Indro Montanelli sul «Corriere» di tanti anni fa, «i terrieri toscani trovano nelle loro fattorie un motivo di orgoglio pionieristico. Sono stati loro, una generazione sull’altra, a dissodarle, a spianarle, a prosciugarle». E per loro «ogni giorno i nipoti e i pronipoti devono seguitare a rimboccarsi le maniche per spremerne un frutto».
Ma non sono solo gli eredi di quelle famiglie toscane che oggi hanno motivo di emozionarsi orgogliosi per quel paesaggio meraviglioso costruito terrazzamenti su terrazzamenti, pietra su pietra, goccia su goccia di sangue e sudore. La scelta dell’Unesco di iscrivere l’arte del muro a secco tra i patrimoni immateriali dell’umanità rende onore a tutti quegli otto paesi che dalla Grecia alla Spagna, da Cipro alla Croazia, ospitano quei sacrari di sassi che da tempi lontanissimi hanno plasmato isole e colline, monti e promontori facendone luoghi, per usare le parole di Cesare Brandi su Pantelleria, dove «tutto è naturale e allo stesso tempo tutto è artificiale».
Non per altro, ricorda Donatella Murtas, autrice di Pietra su pietra e rappresentante dell’«Alleanza mondiale per i paesaggi terrazzati», «una leggenda del popolo Igorot, nelle Filippine, vuole che il dio Kubunyan Lumaig utilizzi i ripiani terrazzati, ricavati dai loro lontani antenati intagliando le montagne, per venirli a visitare sulla terra». Di più: «Durante le sue visite, a loro particolarmente gradite, il dio elargisce – adesso come cento secoli fa – importanti suggerimenti sulle tecniche agricole, sulle modalità da adottare per avere un raccolto di riso abbondante, indicazioni su come gestire le acque e domare la ripidità delle montagne per renderle loro amiche».
E pare davvero esserci un tocco divino dietro certi squarci delle campagne pugliesi o sarde ordinatamente ripartite da muri a secco di spettacolare bellezza o i paesaggi terrazzati delle Eolie, dei vigneti senesi i fiorentini, dei colli trevisani, delle Langhe e di tanti altri panorami italiani che da secoli fanno spalancare la bocca d’ammirazione ai visitatori. Come Wolfgang Goethe che, scendendo lungo l’Adige verso Trento scrisse: «La campagna lungo il fiume e su per i colli è così fitta e intrecciata di piante da far pensare che si soffochino a vicenda: spalliere di viti, mais, gelsi, meli, peri, cotogni e noci. Sopra ai muri affiora rigoglioso il sambuco; in solidi fusti l’edera sale su per le rocce e le ricopre largamente; la lucertola guizza nelle fenditure, e tutto ciò che si muove di qua e di là riporta alla mente le più care immagini dell’arte».
Basti pensare ai paesaggi di Dante Alighieri, scrive Mauro Varotto, docente a Padova e autore di vari libri sull’ambiente e la montagna: «Tutta la scenografia della Divina Commedia, per non citare che l’esempio più eclatante, si potrebbe dire sostanzialmente ambientata in un paesaggio terrazzato». Un’opera per tutte? «La Divina Commedia illumina Firenze», di Domenico di Michelino, a Santa Maria del Fiore. O a certi dipinti del Giorgione o di Tiziano…
Fu una fatica enorme, come ricordava Montanelli, tirare su spesso sotto il diluvio o sotto un sole furibondo quei muri. Sudore e dolore, dolore e sudore. Quelli che spinsero il grande Carlo Cattaneo a parlare con ammirazione delle terre lavorate dall’uomo, le quali «si distinguono dalle selvagge perché sono un immenso deposito di fatiche».
È straordinaria, l’eredità che noi italiani abbiamo ricevuto da quei nonni e bisnonni. Il totale delle aree censite dal progetto Mapter, scrive Varotto, «ammonta a circa 170 mila ettari (grosso modo una regione come il Veneto), ma alcune aree non sono ancora state coperte da rilievi a tappeto, dunque tale prima quantificazione è ancora parziale». Secondo un’ipotesi di Luca Bonardi «si può stimare l’esistenza di almeno 300 mila ettari di aree terrazzate, esito di una colonizzazione dei versanti a fini agricoli che risale indietro nei secoli, ma in massima parte eroica conquista di terreni all’agricoltura in parallelo con le fasi di incremento demografico tra metà Settecento e fine Ottocento». Peccato che «oltre il 30 per cento del patrimonio documentato è oggi abbandonato e riconquistato da bosco e vegetazione arbustiva». Un delitto.
Come un delitto, sotto il profilo paesaggistico, è la rottura di certe vedute storiche delle nostre aree collinari dove i vigneti a girapoggio, terrazzamenti interrotti qua e là da un cipresso, una casupola, una stradina, vengono brutalmente sostituiti da vigneti a «rittochino», tutti in riga in verticale, «californiani», dove la precedenza non è più data alla bellezza ma alla produttività industriale. Con tanti saluti alle poesie di Eugenio Montale, ai muretti e al «meriggiare pallido e assorto / presso un rovente muro d’orto, / ascoltare tra i pruni e gli sterpi / schiocchi di merli, frusci di serpi…».
Il patrimonio è tale tuttavia, prosegue il dossier, che abbiamo ancora «170.000 chilometri di muri a secco, venti volte la lunghezza della muraglia cinese. La Liguria vanta di poter fare il giro della terra con i suoi 40 mila chilometri di muri, la Costiera amalfitana di possederne l’equivalente della Grande Muraglia: 8 mila chilometri». Più bassi, ovvio. Non meno belli.
Ce la meritiamo, un’eredità così? Mantenere quei muri a secco, preservando gelosamente l’arte e il paesaggio secolari è costoso. Due lavoranti esperti riescono, in un giorno, a posare le pietre per non più di un metro cubo. Sono soldi, tanti soldi. Spese che non tutti sono in grado di sopportare come la famiglia Rallo, di Donnafugata, che a Pantelleria, l’isola in testa per ettari terrazzati (seguono Modica, Ragusa, Lipari, Genova…) ha ricostruito via via per i suoi vigneti di Zibibbo venti chilometri di terrazzamenti. Curando la manutenzione di altri quaranta.
Vale la pena, per loro e tanti altri contadini e viticoltori e produttori d’olio italiani, di insistere? Sì, risponde chiunque ami il nostro paesaggio. È lì la bellezza. Basti rileggere le parole con cui due secoli fa il viaggiatore inglese James Paul Cobbett scriveva dei vigneti su «tutti i fianchi delle colline» intorno a Lucca: «I gradoni sono piuttosto stretti, misurano sei piedi di larghezza; un filare di viti si leva lungo la proda di ogni ripiano. Le vigne vengono coltivate e tirate su con una meticolosità e una dedizione che non conoscono rivali. La sistemazione di ogni paletto, la potatura, la piegatura, la legatura del singolo ramo…».
Insomma, «sarebbe difficile sostenere che, come risultato di tante amorevoli cure, i raccolti non siano il dono degli Dei, di Cerere e di Bacco».