Corriere della Sera, 29 novembre 2018
Germogli, muschio e erbe: l’archeologo della cucina
Pigne fermentate, muschio, liquirizia spontanea e estratto di felci di montagna. Ma anche radici e germogli, aghi di pino. «Porto nei piatti i sapori e con essi la storia dei boschi dell’altopiano dei Sette Comuni di Asiago, un luogo con una biodiversità unica grazie a un microclima che permette la nascita di oltre 200 tipi di erbe spontanee utilizzabili nelle preparazioni», spiega Alessandro Dal Degan parlando della sua cucina «selvatica». Chef-erborista, autodidatta, classe 1981, ha imparato le basi in famiglia, poi ha fatto la gavetta allo stellato «Gallopapa» nel Chianti senese e nel 2019 è passato a guidare «La Tana» dello Sporting Hotel di Asiago. Prima di aprire, non distante, nel 2015 – con Enrico Maglio, sommelier e responsabile di sala – «La Tana Gourmet», a pochi passi dalle piste da sci, col quale ha conquistato l’anno successivo la stella Michelin. Dal Degan è – a suo modo – un «archeologo» della cucina che cerca di recuperare tecniche e gusti usati da sempre in queste terre ma ora in parte dimenticati. E una volta ritrovati li elabora in maniera creativa.
«L’Altopiano di Asiago – racconta lo chef – possiede una cultura gastronomica unica che risale ai suoi primi abitanti, dei barbari originari della Danimarca scesi in Italia intorno al 100 a. C. e sconfitti dalle truppe Romane di Gaio Mario. Dopo la disfatta questa popolazione trovò rifugio nei dintorni di Asiago, un luogo abbastanza freddo per ricostruire le loro abitudini, comprese quelle alimentari, che includevano l’uso di muschi e licheni». Una cucina di cui non esistono testimonianze scritte, ma solo tracce nelle abitudini locali, in parte disperse dopo lo sfollamento di Asiago, rasa al suolo durante la Prima guerra mondiale.
Nel piatto va rappre-sentato ogni gusto: dolce, acido, salato, amaro
«Di questa cultura gastronomica fa parte l’uso della fermentazione – spiega —, usata per conservare i cibi durante i lunghi inverni, e che accomuna la cucina asiaghese primitiva a quella moderna del Nord Europa». Da questo recupero di tecniche antiche nascono piatti come le lumache d’alta quota stufate nel fieno essiccato e tostato, proposte con crema di erbe di campo e pane al muschio. «Le accompagno – racconta – con un altro sapore tipico delle nostre zone: la pigna del pino mugo, dalle proprietà balsamiche, resa tenera e acidula dalla fermentazione nel latticello per circa quattro o cinque mesi, servita con un pane fatto lievitare con gli enzimi del muschio». Preparazioni, queste, che richiedono anche mesi di studio prima di entrare in carta. «Come nel caso delle fermentazioni, – dice Dal Degan —, per le quali mi appoggio a un laboratorio di ricerca microbiologica per essere sicuro di quello che metto nel piatto». E il menù del ristorante può cambiare anche giornalmente in base alla raccolta degli ingredienti nei boschi e la disponibilità dei prodotti dei due orti, in cui lo chef coltiva oltre 160 varietà di aromi da tutto il mondo.
La cucina asiaghese antica ha punti in comune con quella nord-europea
Ma quella di Dal Degan non è una cucina del tutto a km zero. Molti piatti contengono ingredienti di luoghi lontani per origine ma non per cultura: come il pesce, ad esempio. «Dal 1400 al XIX secolo la Spettabile Reggenza dei Sette Comuni di Asiago ha intrattenuto rapporti colla Repubblica Veneziana, fornendole legna e protezione militare. In cambio riceveva prodotti come il pesce, che quindi era di comune utilizzo». Ed ecco il perché nella sua cucina di preparazioni come la trippa di vitello cotta in bianco e finita in fricassea, con uovo e limone, affiancata sul piatto da cozze, lichene islandese amaro, polvere di porcini e acqua di molluschi lavorata come un dashi giapponese con il lichene stesso e poi affumicata.