la Repubblica, 29 novembre 2018
Il ritorno del vino sfuso
L’etichetta non è il vestito buono di un vino: la qualità si trova anche in quelli in mescita. È una questione di cura, di ricerca, e in Italia c’è un movimento di osti attenti a selezionare le migliori bottiglie, ma a proporre anche lo sfuso, spesso di uno di quegli stessi vignaioli presenti nella carta dei vini. Se gli anni Ottanta e Novanta hanno creato l’equazione “quartino” uguale “menu turistico”, invitando a riempire la casella del vino sfuso al prezzo più basso possibile, oggi questa lettura è superata. Le spiegazioni possibili sono tante: è cresciuta una cultura del cibo e delle materie prime locali di qualità medio- alta, e anche il vino è frutto di un atto agricolo; s’è consolidato un mercato dei vini naturali. Leonardo Vignoli – l’oste della trattoria Da Cesare di Roma, premiata con la migliore carta dei vini per Osterie d’Italia Slow Food 2019 — ne aggiunge una terza: per lui avere in carta quattro vini in mescita rappresenta «un atteggiamento eticamente corretto nei confronti di chi non ha la cultura della bottiglia, perché non è abituato o non può spendere venti o trenta euro per una bottiglia». Ad ogni buon piatto deve potersi accompagnare almeno un bicchiere, senza svenarsi. Da Cesare si sceglie tra Verdicchio ( La Distesa), Barbera (Giacomo Fenocchio) e un paio di vini del Lazio, tra i 6 e i 9 euro.
Il risultato della rivoluzione in corso? Si può tornare a bere mezzo litro del vino delle casa senza aver paura di star male: è un vino giovane e meno strutturato, ma sano. Bianchi e rossi non sono più un prodotto di serie C, ma diventano – con tovaglie e pane – la carta d’identità del ristoratore.
Bicchieri come veicoli d’empatia li usa anche Nicola Bochicchio, da quando sei anni fa ha aperto la sua osteria, Sbarbacipolla, a Colle Val d’Elsa in provincia di Siena: «Mi ha sempre fatto incavolare la mancata considerazione dello sfuso: la mescita è da sempre per me un punto di riferimento». Collabora con due cantine di Colle, Colombaia e Il Casale. Per il bianco si sposta in provincia di Firenze, a San Casciano in Val di Pesa, «perché crediamo nel progetto de la Ginestra ( una coop nata quaranta anni fa, recuperando terreni abbandonati, ndr), e perché un bianco sfuso” bio” qui non c’è». La dignità – al vino privo di etichetta – la dà la carta: chi garantisce un nome al vino sfuso, e magari come Sbarbacipolla indica anche vitigno e annata, aiuta i clienti a considerarlo un «vero vino», un vino con dignità.
Tra i fornitori di Bochicchio c’è la Colombaia, di Dante ed Helena Lomazzi. «Siamo amici, ma quando abbiamo chiesto loro un po’ di sfuso inizialmente hanno tergiversato – spiega Bochicchio –. Poi hanno capito che era un’opportunità, anche quella di sperimentare tagli tra le diverse vigne della proprietà, e capire se incontravano il gusto del consumatore». Tra i clienti di Sbarbacipolla tanti iniziano con lo sfuso e poi chiedono una bottiglia della stessa azienda, che magari portano a casa.
In Lucchesia nel 2016 e 2018 si è svolta “La Luna e lo Sfuso”, una festa ospitata dal ristorante i Diavoletti di Camigliano in provincia di Lucca. Spiega Paola Bosi, che sta in sala mentre la sorella Alda cucina: «Chi sceglie la mescita mostra fiducia nella mia capacità di prendermi cura di chi siede a questi tavoli». Ai Diavoletti – cucina di territorio, materie prime locali e biologiche – arrivano i vini di Tenuta di Valgiano, Calafata e Bordocheo. Tutti a chilometro zero. Nei locali della zona la densità di sfuso di qualità è altissima: al Giglio ( stella Michelin nel 2019) c’è il Merlot di Tenuta Lenzini, all’Osteria da mi pa’, al Mecenate e al Tambellini, servono il rosso e il bianco dell’azienda agricola Valle del Sole.
Oltre agli osti che ci credono e che lo propongono anche chi produce etichette riconosciute e premiate nelle guide non teme il vino nella caraffa. Nadia Verrua, della Cascina Tavijn, ha anche investito in un bel vestito per il suo bag in box da 5 litri. È in mescita a Torino nel ristorante Consorzio, del compagno di Nadia, Pietro Vergano. Che lo serve perché «è buono, ed è economico, e per il produttore è anche un modo semplice di gestire poche centinaia di litri non imbottigliati». A Torino lo sfuso della Verrua è anche da Banco, Vini e Alimenti. E con il bag in box può diventare il vostro vino quotidiano. Economico, ma buono e sano.