Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2018
Londra blinda l’oro altrui
«Bank of England, Threadneedle St, London
All’attenzione del Governatore Mark Carney
Con la presente, il Banco Central de Venezuela, per conto del Governo della Repubblica del Venezuela, chiede la restituzione di 14 tonnellate di lingotti d’oro custoditi presso la vostra pregiata istituzione. La richiesta ha carattere d’urgenza». Era fine agosto 2018. A tre mesi di distanza, un’eternità sul mercato dell’oro, nè la banca centrale di Caracas, nè il dittatore venezuelano Antonio Maduro, hanno riportato in patria un solo grammo delle 14 tonnellate di cui chiedevano «la riconsegna urgente». Ben sigillati nelle loro case di legno, i 112 lingotti da 12,4 chili ciascuno resteranno a Londra finchè la Bank of England non deciderà altrimenti.
In pratica, il 10% delle riserve auree venezuelane è sotto sequestro inglese senza alcuna ragione apparente. E senza alcuna base legale. Salvo una, davvero sorprendente: sul contratto di custodia dell’oro, la Banca d’Inghilterra ha scritto in piccoli caratteri una clausola che parla da se: «La Bank of England si riserva il diritto di non restituire l’oro sovrano in custodia e di impedirne anche la visione».
Che dire? O forse, che cosa non dire: perché se anche il Governo italiano ha davvero fretta di riportare in patria le sue 300 tonnellate d’oro prese in consegna nel dopoguerra dal governo inglese (altre 300 tonnellate sono in custodia alla Federal Reserve di New York), farebbe bene a non spedire a Londra raccomandate con «carattere d’urgenza». Questo, come ha capito il Venezuela (e non solo) non è certamente il periodo migliore per mettere pressione agli inglesi, soprattutto sui depositi di oro sovrano: tra le ansie per la Brexit, la paura di un crollo dei bond e delle Borse e la miriade di incertezze valutarie e geopolitiche globali, l’oro sovrano è tornato ad occupare un ruolo chiave per Stati e mercati. Sia come riserva di valore in caso di crisi valutaria o sistemica, sia come garanzia collaterale per gli investimenti speculativi o per il bilanciamento dei rischi di portafoglio.
Ma su questo punto, è bene fare attenzione: la segretezza che circonda la gestione delle riserve auree straniere è talmente alta e protetta da aver creato forti sospetti su un loro utilizzo improprio per operazioni di mercato tra le due grandi banche centrali e i loro interlocutori del sistema finanziario: in sintesi, lingotti di altre nazioni verrebbero dati in prestito (a loro insaputa) a banche ed hedge fund, o cartolarizzati in Gold Certificates, dietro l’impegno delle parti a non reclamare mai la proprietà dei lingotti alla scadenza dell’operazione. Tutto deve chiudersi in dollari o sterline. Una pratica chiaramente vietata, ma resa possibile proprio dal controllo esclusivo e insindacabile esercitato dai due grandi «Goldbusters» dell’oro sovrano degli altri Paesi. Sempre che qualcosa non vada storto sul mercato, o che a mandare il gioco in crisi sia un’ondata imprevista di richieste di rimpatrio di oro straniero.
È forse questa la ragione dello stop inglese al rimpatrio dell’oro venezuelano? O dietro il blocco delle riserve di Caracas c’è un’operazione di carattere politico contro un altro stato sovrano, un fatto senza precedenti per una banca centrale europea? Oppure, come molti sospettano, dietro la “stangata” ai venezuelani c’è un messaggio in codice per le altre 70 nazioni che potrebbero chiedere indietro agli inglesi il proprio tesoro nazionale? Per ora ci sono solo ipotesi, ma la paura di una sovranità limitata sull’oro sovrano è una spinta potente e pericolosa all’aumento delle richieste di rimpatrio di centinaia di tonnellate di riserve auree. Per il Venezuela e per una decina di altri Paesi che non riescono a riprendersi il proprio oro da Londra (e da New York), la sensazione è proprio quella. Ed è una brutta sensazione, non solo per loro.
Perché oltre al tesoro di Caracas e a quello della Banca d’Italia, la Bank of England tiene sotto chiave altri 200mila lingotti d’oro sovrano di proprietà dei governi di oltre 70 nazioni: sono 1.500 quintali di metallo giallo purissimo su uno stock totale di 3.210 quintali d’oro “sepolti” ufficialmente sotto il letto del Tamigi. Per quasi un secolo, nessuno ha messo in dubbio la sicurezza delle riserve auree europee recuperate dagli alleati dopo la guerra e prese in custodia dalla Bank of England e dalla Federal Reserve. Gli stock hanno avuto negli anni fluttuazioni marcate, registrando un fortissimo esodo soprattutto nel decennio post-Lehman e della grande crisi finanziaria mondiale, ma secondo i dati della Banca dei Regolamenti Internazionali di Ginevra, quasi la metà dei 1.360 miliardi di dollari delle riserve auree mondiali è ancora nelle mani dei due grandi guardiani della finanza internazionale. Ma riprendersele non è più tanto facile.
Poco prima del blitz inglese sull’oro del Venezuela, era stata infatti la Fed di New York a bloccare inspiegabilmente il rimpatrio a Francoforte di 130 tonnellate d’oro sovrano appartenenti alla Repubblica federale tedesca: solo nel 2017, dopo oltre un anno di trattative infruttuose con i vertici della Fed, Berlino minacciò l’apertura di una crisi diplomatica e riuscì così a riprendersi l’oro. Ma la Germania non è il Venezuela, e Maduro non è di certo la Merkel: per Caracas, la speranza di rientrare in possesso di quei 600 milioni di dollari in lingotti d’oro purissimo appare molto remota. Londra è irremovibile. E Maduro è isolato: nessun Paese europeo – Unione Europea compresa – ha chiesto pubblicamente spiegazioni a Londra sul merito finanziario o politico di questa vicenda. Quando c’è di mezzo la sicurezza dell’oro della “patria”, litigare con il cassiere non conviene a nessuno.
Lo sa bene il Venezuela, e lo aveva già capito prima la Germania: nel nuovo disordine globale, non è più la fiducia tra banche centrali a garantire la certezza sull’oro delle riserve nazionali. Non è un caso, del resto, se nell’arco di tre anni la corsa mondiale ai rimpatri di riserve auree abbia tolto dal controllo della Bank of England oltre 400 tonnellate d’oro massiccio: dai forzieri della Fed di New York, sono uscite addirittura quasi 7mila tonnellate di lingotti d’oro sovrano tra il 2009 e il 2017, un record di rimpatri senza precedenti nella storia. A New York, dove la Fed aveva 10 anni fa in custodia fiduciaria oltre 12.500 tonnellate d’oro straniere, ne sono rimaste ora solo 5mila tonnellate. Troppi per le esigenze strategiche inglesi a americane? L’ipotesi è sul tavolo, visto che lo stop al rimpatrio dell’oro venezuelano è arrivato dopo mesi e mesi di analoghe richiesta provenienti dall’Europa centrale e dall’Asia.