Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2018
Tagliate le partecipate più piccole
La giungla delle partecipate comunali si sfoltisce. Perde rami e rametti e soprattutto riduce davvero le proprie dimensioni. Il censimento ufficiale è appena partito, il ministero dell’Economia ha chiesto a tutte le Pa di mandare i dati entro il 7 dicembre. Ma i numeri dei Comuni, che sono i grandi protagonisti nel mondo delle partecipazioni pubbliche, cominciano a emergere. E dicono che i «piani di razionalizzazione» hanno lavorato davvero di forbice: cessioni, liquidazioni, chiusure e fusioni hanno interessato 1.654 società, il 30,7% delle 5.374 attive prima della riforma. E siccome tra le «razionalizzazioni» possibili c’era anche la fusione, che fa nascere un’azienda nuova da due vecchie, il saldo finale fra le 1.654 aziende estinte e le 595 nuove nate è un taglio complessivo del 20%. Il quadro ha colori ancora più netti quando ci si concentra sui soli capoluoghi di Provincia: lì i tagli hanno riguardato 568 società, il 37% delle aziende partecipate dai sindaci.
A mettere in fila i dati è un monitoraggio dell’Ifel, la fondazione dell’Anci per la finanza locale (oggi terrà la sua assemblea nazionale), che sarà pubblicato nei prossimi giorni. I numeri arrivano dall’interrogazione delle banche dati del Cerved Pa, che censiscono le aziende attive nel cui capitale è presente una pubblica amministrazione. E spiegano che i «piani di razionalizzazione» chiesti dalla riforma Madia non si sono limitati a un maquillage di facciata, com’era invece capitato ai tentativi precedenti di battere la stessa strada. Con un limite: la tagliola si è abbattuta sulle partecipate più piccole, ha cancellato un po’ di seggiole in cda e collegi sindacali, ma è rimasta lontana dalle aziende che aprono i buchi più grandi nei bilanci. Per quel problema, la cura è un’altra. A cadere sotto i colpi della razionalizzazione sono state nel 43,8% dei casi aziende attive in servizi di «interesse generale», un’etichetta ampia che abbraccia tutti i servizi pubblici, il 27,9% delle operazioni ha riguardato le «strumentali», che lavorano per le Pa proprietarie, mentre per l’altro 28,3% i database non specificano il settore di attività, segno che si tratta in genere delle tante micro-aziende negli ambiti più disparati. Spesso, le aziende sono state privatizzate con l’abbandono da parte dei Comuni delle loro quote di minoranza. «Noi abbiamo venduto la società di commercializzazione del gas e le farmacie – riflette per esempio il presidente dell’Ifel Guido Castelli, sindaco di Ascoli Piceno – perché vendere gas o farmaci non è certo mestiere del Comune. Nel complesso queste razionalizzazioni sono state utili e bisogna procedere. Ma occorre anche smettere di pensare alle partecipate solo come fonti di spreco, perché i numeri dei bilanci dicono altro».
Per capire a che punto siamo davvero nel dibattito infinito sulle partecipazioni locali serve un breve riassunto delle puntate precedenti. Tutto nasce dal Testo unico delle società pubbliche del 2016, che ha imposto alle Pa con qualche partecipazione in portafoglio di scrivere un «piano straordinario di razionalizzazione» per tagliare o uscire da due tipi di società: quelle estranee alle «finalità istituzionali» dell’ente proprietario, per evitare che sindaci o presidenti di Provincia e Regione continuino a vendere prosciutti o vino facendo concorrenza sleale ai privati, e quelle troppo piccole (con meno di 500mila euro di fatturato, o con meno dipendenti che amministratori). Nel mirino, fuori dai servizi pubblici come trasporti, rifiuti o acqua, anche le aziende in perdita strutturale. I piani andavano presentati entro il 30 settembre 2017, e attuati nei dodici mesi successivi. E la notizia, stando ai primi numeri, è che le società sono state tagliate davvero.
Come mai? La differenza fondamentale rispetto ai tentativi precedenti risiede nel fatto che la riforma del 2016 ha fissato dei parametri oggettivi per individuare le partecipate da abbandonare. Parametri a volte poco coraggiosi, concentrati come sono sulle realtà più piccole, ma inderogabili. Il tentativo di rinviare il tutto di un anno, spuntato nel Milleproroghe, è stato abbandonato rapidamente, e la moratoria di tre anni per le mini-società con i conti in ordine, infilata nella manovra, entrerà in vigore solo a gennaio, cioè tre mesi dopo i termini entro cui le società fuori regola andavano chiuse o vendute. Nei fatti, si tratta di un intervento su misura per salvare le partecipazioni in Ascoholding, la società che controlla Ascopiave (l’azienda nordestina di distribuzione dell’energia), finita al centro di una battaglia fra amministrazioni.
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Gianni Trovati