Corriere della Sera, 29 novembre 2018
Il servizio sanitario italiano funziona. Un libro di Giuseppe Remuzzi
Non è la stessa cosa ammalarsi negli Stati Uniti o in Italia. Là c’è la medicina scientificamente più avanzata del mondo, ma se non si è assicurati si rischia di non essere curati, perlomeno al meglio delle possibilità. E avere una patologia grave in famiglia significa spesso indebitarsi o andare letteralmente in rovina (chi ha seguito la serie televisiva Breaking Bad si è potuto fare un’idea di ciò di cui si parla...). E quanto accade negli Usa corrisponde a quanto avviene in molti altri Paesi. In Italia no. Qui chi ha un tumore può venire trattato con le terapie più innovative anche se costosissime e non paga nulla. Lo stesso se ha bisogno di un trapianto, oppure se deve sottoporsi a dialisi.
Nella maggior parte dei casi niente di tutto questo sarebbe nemmeno lontanamente affrontabile con le risorse economiche di un singolo o di un gruppo familiare. Ciò è possibile perché il 23 dicembre 1978 è stato istituito il Servizio Sanitario Nazionale, che, sull’esempio di quello britannico (di cui Londra si è vantata nella cerimonia di apertura della sua ultima Olimpiade), vuole assicurare l’assistenza a tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro possibilità economiche. Eppure sul Servizio Sanitario si sentono continue lamentele. Il motivo è semplice: niente è perfetto e quando, per esempio, si ha bisogno di un esame per cui la lista d’attesa è di nove mesi, non si pensa a ciò che accade altrove, ma al fatto che di quell’indagine c’è bisogno ora: fra 270 giorni potrebbe essere troppo tardi. E allora chi può paga e si affida al privato, o al privato convenzionato, oppure, nel caso di una visita, all’«intramoenia», per essere ricevuti dallo stesso medico che l’avrebbe fatto dopo diversi mesi con le liste d’attesa pubbliche ma che, nello stesso ospedale, pagando direttamente, ci vedrà molto prima.
Eppure, nonostante questo e altri difetti, il nostro sistema sanitario è un bene da difendere a tutti i costi. Ne è convinto in modo irriducibile Giuseppe Remuzzi, uno dei medici italiani più famosi e apprezzati, anche all’estero, che nel suo ultimo libro, La salute (non) è in vendita (Editori Laterza), affronta i principali problemi di questo sistema e fa proposte concrete per risolverli. A partire, per esempio, dalla chiusura dei piccoli ospedali, che non possono assicurare standard di cure adeguate, ma garantiscono occupazione e spesso sono il cespite economico più rilevante, considerando anche l’indotto, per una comunità relativamente piccola. Insomma, sottolinea Remuzzi, è ben difficile che un amministratore locale si faccia promotore di un’iniziativa di questo genere, quindi sarebbe più sensato che fossero altri a decidere in merito visti i risparmi e i guadagni in efficienza che si potrebbero ottenere. Ma è solo un esempio.
Altro nodo fondamentale è il criterio retributivo delle prestazioni sulla base dei cosiddetti Drg (Diagnosis Related Groups), che dovrebbero assicurare un equo compenso per le singole prestazioni fornite dagli ospedali da parte delle Regioni e che invece si è non di rado trasformato in un boomerang per i conti pubblici, facendo aumentare i costi, e per i pazienti, dimessi talora «frettolosamente» per lasciare «il letto» libero per un altro «Drg». Una scelta che ha generato anche storture, penalizzando gli ospedali pubblici a favore di quelli privati convenzionati, più «propensi» a prestazioni maggiormente remunerative. Uno sbilanciamento, quello fra pubblico e privato convenzionato che è di fatto il fulcro di tutta l’analisi di Remuzzi, che stigmatizza in modo molto argomentato perché il «mercato» nella salute rappresenti un serio rischio (da qui il titolo). Una critica molto energica verso chi vorrebbe spostare, più o meno progressivamente, il nostro modello universalistico verso altri fondati su forme assicurative individuali. Le quali, peraltro, numeri alla mano, dimostrano di non far risparmiare affatto lo Stato. La spesa sanitaria procapite degli Stati Uniti è molto più alta di quella italiana: un paradosso, ma solo apparente se si guarda in profondità al funzionamento dei due sistemi. Una difesa appassionata, motivata e argomenta del nostro sistema, di cui l’autore non nega però le storture, che affronta in modo coraggioso e provocatorio, cosa che gli attirerà anche critiche, soprattutto da parte di chi da tali storture lucra vantaggi.
Non mancano accenni anche pungenti all’attuale organizzazione dell’assistenza, a partire da quella «di base», territoriale, e del suo rapporto con gli ospedali. Così come vengono stigmatizzate come assurde situazioni che impediscono a giovani medici preparati e motivati l’ingresso a pieno e riconosciuto titolo nelle strutture pubbliche. Un ricambio sempre più necessario.
Chiude la riflessione un attacco senza mezzi termini alla riforma europea che regola in modo preciso gli orari di lavoro dei medici. Il diritto dei medici a riposare è sacrosanto secondo l’autore, ma è sacrosanto anche il diritto dei malati a essere curati. Il medico, in sostanza, non fa un lavoro «come un altro».