Corriere della Sera, 29 novembre 2018
Kalin Bennet, il campione di basket autistico
Autistici così vengono definiti ad altissimo funzionamento, come le lavatrici di ultima generazione. Il lessico scientifico da ramo elettrodomestici serve per collocare queste creature in cima alla scala dell’autismo, tra i cosiddetti «Asperger», dal nome del medico che precisò questa particolare sindrome.
Tra i tanti autismi possibili e immaginabili – la scienza ormai dice tanti quanti sono i singoli autistici – a Kalin Bennet è toccato il migliore. Un autismo poco cattivo, al punto da permettergli di raggiungere un traguardo fantascientifico: la firma con la Kent State, squadra di basket al massimo livello, campionato universitario statunitense (Ncaa), appena sotto la stellare Nba. Proprio niente male per un ragazzone gigantesco che a quattro anni non camminava e non parlava, che solo a otto pronunciò il suo primo discorso compiuto, che per tutta la vita si è portato dietro la famosa diagnosi non potrà fare questo e non potrà fare quello, cioè non potrà mai fare niente.
Tanto lavoro, tante terapie, come in tutte le impervie vite autistiche. Ma adesso il trionfo: certo questo contratto, primo ingresso dell’autismo nel rotary del superbasket, ma soprattutto la consapevolezza di essere autistico fortunato, un sublime controsenso, perché autismo è inizialmente – per quasi tutti eternamente – non comunicare, non rendersi conto, non darsi una spiegazione. Kalin è invece perfettamente in grado di dire parole così: «God is good, Dio è buono. Mi ha reso capace di arrivare fin qui e di giocare al gioco che amo. Voglio che la mia storia serva a tutti i bambini autistici. Voglio dire loro: hey, se posso farlo io, puoi farlo anche tu».
Per essere più chiaro, un giorno cercò di nuovo il medico della sua diagnosi iniziale. «Scusa dottore, sei tu quello che quand’ero piccolo mi ha detto non farai mai questo e non farai mai quest’altro?». «Sì, Kalin, sono io». «Spero tu non l’abbia detto a nessun altro, perché potresti rovinargli la vita».
Kalin è un autistico ad alto funzionamento, dunque sarà sicuramente il giocatore che tutti gli allenatori di tutti gli sport sognano di allenare: serio, preciso, metodico, tenace, instancabile. Soprattutto, contento. Altro che stress per le pressioni. Altro che lamentele, capricci, ore piccole. I suoi ultimi coach confermano. Craig: «L’ho allenato tutta l’estate. Il ragazzo ha un cuore grandioso. Da Dallas a Las Vegas, ha giocato forte. Sempre. Il Kent State ha un buon giocatore per le mani. E un grande ragazzo». E Rooney: «È uno dei giovani più svegli che abbia mai incontrato. È un computer semovente. Sono così contento per lui». Quanto alla squadra che l’ha scritturato, a Kent State dicono semplicemente questo: «Un essere umano fenomenale».
Non tutte le storie di autismo finiscono così. Quasi nessuna. Ma questa aiuta la gente a capire quanto comunque ci sia, in dosi diverse e assortite, nella fortezza chiusa a doppia mandata di un autistico. Chi trova la chiave, può cavare oro. L’impresa titanica, la scommessa estrema, è capire quale chiave.
Il mansueto gigante Kalin, dal punto più eccelso del candore e dell’innocenza, non ha niente da chiedere alla sua improvvisa popolarità. Se non tirare bene a canestro e piazzare qualche sonora stoppata. L’unica questione che gli preme di chiarire è una meravigliosa questione d’orgoglio: «Non mi hanno voluto per il mio autismo, per avere una bella storia da raccontare. Mi hanno voluto perché io so arrivare all’anello del canestro e perché amo giocare».
Salta, Kalin. Sgomita, Kalin. Tira, Kalin. Come tu hai superato i tuoi limiti, prima o poi il mondo là in tribuna saprà superare anche i suoi: l’applauso non sarà per un tenero autistico, ma per il bravo giocatore.