la Repubblica, 28 novembre 2018
I numeri a caso della manovra
Il governo forse farà un “ritocco” alla manovra, ma la pezza, se ci sarà, sarà peggiore del buco. Dopo i primi mesi in cui era giusto dare il beneficio del dubbio e dell’adattamento alla novità, è ora chiaro che questa manovra è frutto di dosi massicce di dilettantismo e ciarlataneria, un problema non risolvibile trattando con Bruxelles. Anzi, la ricerca di un compromesso di facciata costringerà il governo a ricorrere a finzioni ed ipotesi ancora più assurde e incredibili di quelle utilizzate finora. Il risultato sarà un documento che, come già ora, in ambito privato si qualificherebbe come pubblicità ingannevole, o più facilmente come falso in bilancio. Purtroppo qui emergono tutti i limiti di un movimento in gran parte in buona fede ma cresciuto all’ombra di un cattivo maestro, il cui modo di pensare e comunicare non è l’analisi pacata ed informata della realtà e la ricerca di soluzioni realistiche e costruttive, ma l’invettiva personale e l’urlo isterico dentro un microfono.
Prendiamo i due cavalli di battaglia della manovra: pensioni e reddito di cittadinanza. Il governo non ha mai chiarito quali delle tante promesse in materia pensionistica intende effettivamente attuare, ma una cosa è matematicamente certa: qualsiasi provvedimento avrà costi molto crescenti nel tempo, mentre il governo stanzia la stessa cifra di sette miliardi (peraltro drammaticamente insufficiente per qualsiasi promessa elettorale) per ognuno dei prossimi tre anni.
Ma tutte le simulazioni dell’Inps, l’unico ente che ha i dati necessari, mostrano che sotto ogni ipotesi plausibile di riforma la spesa pensionistica aggiuntiva aumenterà nel tempo, e di tanto: sia per il meccanismo delle finestre, sia perché, intuitivamente, nei primi anni la riforma aggiungerà nuovi pensionati ogni anno. Nascondersi dietro un dito, insultare Tito Boeri, ed affidarsi ai social e alla tv per intorbidare le acque non può cambiare i numeri.
Circolano almeno quattro stime indipendenti del costo del reddito di cittadinanza, nell’ipotesi di una integrazione al reddito di 780 euro per un single e a salire per nuclei più numerosi: del M5S stesso, dell’Istat, dell’Inps (quando ancora non era invisa al governo), e degli economisti Baldini e Daveri. Tutte concordavano su un costo di 15 miliardi. Il governo non ha mai (ripeto: mai) rinnegato le soglie di integrazione, quindi la cifra rimane 15 miliardi, contro i 7 stanziati. Qualcuno ipotizza che il governo stia pensando di ridurre l’assegno a chi ha un’abitazione: ma i 15 miliardi scontano già questa ipotesi, altrimenti sarebbero 30. Per altri il governo ridurrebbe la platea dei beneficiari grazie alla clausola delle tre offerte di lavoro. Ma anche questa clausola era già nel programma del M5S e nel contratto di governo, e la misura era già cifrata a 15 miliardi. E si tratterebbe comunque di una soluzione inefficace. Le offerte di lavoro devono essere “congrue": chi decide quando un’offerta è tale? È facile prevedere che i Tar avranno molto, ma molto lavoro, e nelle more di una decisione (tra qualche anno) per ognuno dei tanti ricorsi, lo stato dovrà pagare. Anche qui si tratta di matematica, non di politica.
Il migliore esempio di come la pezza sia peggiore del buco rimane però il piano di dismissioni immobiliari, previste in 600 milioni di euro dalla Nota di Aggiornamento di fine settembre ma passate miracolosamente in pochi giorni a 18 miliardi nella recente lettera alla Commissione europea. Una cifra semplicemente pazzesca, che rappresenta un quarto del valore di mercato degli immobili pubblici potenzialmente disponibili; una presa in giro del buon senso se si considera che queste vendite dovrebbero essere realizzate in dodici mesi. Un’altra costosissima finzione.
L’elenco potrebbe continuare. Sono queste ripetute dimostrazioni di superficialità e incompetenza, più che il contenuto stesso della manovra, che spaventano i mercati. La sottosegretaria all’Economia Laura Castelli ha affermato in televisione che un aumento dello spread non aumenta i tassi pagati dalle famiglie sui mutui. Anche qui basta il buon senso per capire quanto sciocca sia questa affermazione. Il motivo è ancora più semplice di quello che l’ex ministro Padoan ha cercato pacatamente di esporre, e cioè gli effetti depressivi sul valore degli attivi delle banche. Le banche raccolgono denari dai risparmiatori con due strumenti: depositi e obbligazioni, e li prestano a famiglie e imprese. Quando lo spread sale, il tasso di interesse su depositi e sulle obbligazioni bancarie sale, perché i tassi di queste ultime sono legati a filo doppio a quelli del debito pubblico italiano, come si è visto nel 2011-12. Di conseguenze, deve salire il tasso che una banca guadagna su prestiti alle imprese e mutui alle famiglie, altrimenti le banche perderebbero soldi. Non succederà subito in modo percettibile, ma se lo spread dovesse salire tanto per molto tempo, è garantito che succederà. Cosa c’è di tanto strano?
Laura Castelli non è nuova a queste affermazioni surreali. Non è questione di titoli di studio o di titoli accademici. Laura Castelli non è un’economista e non ha un cursus universitario rilevante, ma questo personalmente non mi disturba affatto: ci sono stati tanti ministri e politici, in Italia e all’estero, che hanno ben operato senza essere economisti e senza avere lauree.
Semplicemente, come tanti suoi colleghi, è drammaticamente impreparata. E qui i casi sono due. O il governo non si rende conto di quanto siano penosamente imbarazzanti tante persone che hanno responsabilità di decisione e di comunicazione; oppure i membri del governo, abituati a pensare che l’analisi della realtà sia irrilevante e che con gli insulti, le urla e la ripetizione ossessiva di teorie della cospirazione si possa far ingoiare quasi tutto a quasi tutti, applicano questo stesso metodo anche alla costruzione e presentazione della manovra. Nessuna delle due ipotesi lascia ben sperare per il futuro di questo paese.