Avvenire, 28 novembre 2018
Se lo Stato gioca con i soldi
Quando lo Stato gioca con la svalutazione: i magheggi con la valuta non sono certo una novità dei nostri giorni. Dall’entrata in vigore dell’euro non sono più possibili e c’è chi li rimpiange, scordandosi che le prime vittime di questi giochetti sporchi sono proprio i cittadini che vedono diminuire il proprio potere d’acquisto.
Qualcosa del genere è accaduto nel 1345. Per tutto il Duecento il rapporto tra oro e argento si mantiene stabile, mentre nel Trecento si mette a fluttuare: prima si rivaluta l’argento, quindi l’oro. Al tempo – l’America non era ancora stata scoperta – la maggior parte dell’argento proveniva dall’Europa centrale, l’oro quasi tutto dall’Africa, dalla Guinea e ce n’era molto poco, ma era diventato il mezzo di pagamento del grande commercio internazionale. Le grandi potenze commerciali italiane, Firenze e Venezia, avevano bisogno di molto oro. Il metallo giallo, di conseguenza, si apprezza di oltre il 30 per cento, ma solo in Italia, nel Levante il tasso di cambio tra i due metalli rimane invariato. Comprare oro nel Mediterraneo orientale e rivenderlo in Italia diventa un business lucrosissimo; l’argento invece percorre il medesimo itinerario in senso contrario, fino quasi a scomparire. Le monete spariscono: i privati non portano più argento alla zecca perché il valore dei conî che ne ricaverebbero sarebbe inferiore a quello del metallo in pasta e le poche monete che ancora circolano vengono rastrellate per fonderle e ricavarne argento grezzo. Il cronista Giovanni Villani conferma che nel 1345 a Firenze le monete argentee scompaiono perché si preferisce fonderle e mandare il metallo oltremare. Per come si sono messe le cose sono a quel punto possibili due soluzioni: lasciar cadere il corso della moneta aurea o svalutare quella argentea, riducendone il contenuto di metallo fino. Tutta l’attenzione, sia a Firenze sia a Venezia, si concentra sul grosso argenteo perché il titolo di fiorino e ducato aurei non si può modificare in quanto sono i mezzi del commercio internazionale e quindi ne andrebbe del prestigio politico dei due stati. Nel denaro piccolo l’argento è ormai quasi scomparso, lasciando il posto al rame e quindi gli speculatori lasciano in pace le monetine tanto svilite da non essere interessanti. Bisogna svalutare il grosso d’argento, ma le strade scelte in riva all’Arno e in riva al Canal Grande sono sostanzialmente diverse e dimostrano ancora una volta quanto conti il fattore psicologico nella politica monetaria.
Il grosso veneziano si è conquistato in Medio oriente una posizione e un prestigio che invece il grosso fiorentino non arriverà mai a ricoprire nei rapporti internazionali. Venezia cerca in tutti i modi di salvaguardare la stabilità della propria moneta, mentre Firenze la lascia andare al suo destino, pur ricorrendo a trucchi e magheggi per mascherare l’effettiva svalutazione.
Diciamo subito che la soluzione scelta dai veneti si rivela un flop, al contrario di quella presa dai toscani che invece sarà un successo. La Serenissima signoria non tocca il grosso, ma svilisce il mezzanino, cioè il mezzo grosso. Non ci voleva molto per capire che i grossi sarebbero spariti perché conveniva portarli in zecca e fonderli, in modo da ricavarne due mezzanini e mettersi in tasca quello che avanzava. E infatti così accade: la coniazione dei grossi cessa immediatamente e spariscono, sostituiti dai mezzanini svalutati.
Il comune fiorentino è molto più astuto, e si rende perfettamente conto quanto le apparenze possano contare ben più della sostanza: nel 1345 conia un bel monetone, grande e lucente, con un valore nominale accresciuto del 60 per cento, ma un contenuto di metallo fino maggiorato soltanto del 25 per cento. Di fatto è una svalutazione, un gioco di prestigio, ma riesce alla perfezione: «E fu molto bella moneta... ed ebbe corso in Firenze e per tutta la Toscana», scrive il cronista Giovanni Villani. «E fu bella e buona moneta», gli fa eco un altro cronista, Marchionne di Coppo Stefani. Entrambi non realizzano affatto che in realtà si tratti di una fregatura. Tutti vogliono quella bella moneta e corrono in zecca con l’argento necessario a coniarla, facendo in tal modo impennare i diritti di signoraggio intascati dallo stato. Le cose vanno talmente lisce che il comune fiorentino ci prende gusto e ci riprova due anni più tardi, ripetendo l’operazione con il quattrino. Questa volta però aumenta decisamente anche i diritti di zecca in modo da prendere due piccioni con una fava: contrastare i problemi monetari dovuti al rincaro dell’argento e aumentare gli introiti delle casse pubbliche. Niente di nuovo sotto il sole, come si vede.