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 2018  novembre 28 Mercoledì calendario

La complicata eredità di Kafka

Israele, la patria degli ebrei, e la Germania in processo l’uno contro l’altra. E di lato una figura di donna, triste, anche lei parte dello scontro. Ma non si è trattato di affrontare, per una volta, il genocidio degli ebrei. Il tribunale ha dovuto deliberare per attribuire a un mondo o all’altro l’anima di Franz Kafka (1883-1924). A chi apparteneva la sua preziosa eredità culturale, come disboscare il doloroso intrico della cultura tedesca al suo livello sommo con l’eredità ebraica nella sua espressione più misteriosa, quasi indefinibile? E come separarla dagli interessi privati? Di chi è Kafka? Degli ebrei nel cui mondo è nato ed è cresciuta la sua letteratura pure universale, o dei tedeschi nella cui lingua scrisse, pur essendo ceco? In un libro di ricerca affascinante come un romanzo storico, Benjamin Balint, un giovane studioso israeliano dell’Istituto van Leer, ha descritto il procedimento legale con cui trent’anni fa il giudice della corte suprema Eliakim Rubinstein stabilì che l’eredità di Kafka era ebraica, i suoi manoscritti, appunti, memorie possesso della Biblioteca nazionale di Gerusalemme. Il titolo del volume è, con evidente allusione al più famoso fra i libri di Kafka, Kafka’s Last Trial (in italiano sarebbe L’ultimo processo di Kafka).
La sentenza di Rubinstein è di per sé un saggio, un trattato sul rapporto fra ebraicità e mondo tedesco, fra sionismo e Europa, una parte indispensabile della teoria della riconciliazione, e tuttavia dell’insanabilità sostanziale dell’Olocausto. Israele ha nella difficile scelta di Rubinstein la funzione di redimere l’intera storia della cultura acquisendo il contributo ebraico nelle mura salvifiche dello Stato Ebraico. E la Germania, si legge sempre nelle carte, ha seppellito con la sua guerra di sterminio ogni aspirazione universalistica, quale che sia la sua pretesa contemporanea. Balint ha ricostruito tutto il percorso dei manoscritti, centinaia, finiti in una casa di Tel Aviv nelle mani di due signore, figlie della aiutante, segretaria, forse anche amante di Max Brod, l’intellettuale che portò in Israele fuggendo dalla Shoah tutti gli scritti di Kafka. Poi li lasciò in eredità all’aiutante Esther Hoffe.
La storia è affascinante. Max Brod era un giovane praghese piccolo e vivacissimo, ragazzo di genio, musicista, poeta, drammaturgo, ambizioso, estroverso. Così è rimasto tutta la sua lunga vita (1884-1968, 80 libri). A 25 anni era in corrispondenza con Herman Hesse, Thomas e Heinrich Mann, Hugo von Hofmannsthal, Rainer Maria Rilke e altri. Era una star del mondo letterario. E gli piacevano molto le donne. Tutto l’opposto Kafka, notoriamente schivo e melanconico. Ma Brod diventa sin dalla prima gioventù il migliore amico dell’ombroso, geniale fenomeno, lo riconosce subito come tale. Kafka lamenta molto la sua incapacità sentimentale di cui Brod lo sgrida sempre, anche se avrà almeno due amori, Felice Bauer e Dora Diamant. Alla prima, di cui commenta malevolmente l’aspetto e che gli fu presentata da Brod, scrisse lettere frequentissime, lasciandoci così in possesso di parecchio materiale personale, quasi tutto collezionato da Brod e poi passato in casa della segretaria. Ma Kafka non voleva che i suoi scritti fossero conservati, o almeno voleva che i posteri pensassero che non voleva, così, ormai malato di tisi, consegnò tutto al suo migliore amico Brod con l’indicazione tassativa di bruciare tutto alla sua morte. Sapeva certo di aver messo tutto nelle mani meno adatte per quel compito, dice Balint.
Quando nel 1939 Max Brod saltò su un treno fuggendo da Praga occupata dai nazisti portava con sé tutti i manoscritti del suo amico, e in Israele gli si dedicò furiosamente per pubblicarli, commentarli e ricavarne due biografie. E alla sua morte passano nelle mani della fida, elegante e prepotente Esther Hoffe. Tanto per descriverne il valore, Esther ricevette quasi due milioni di dollari dall’Archivio della letteratura tedesca di Marbach per l’acquisto del manoscritto del Processo. Esther morì nel 2007 e i documenti rimasero stipati in casa di una delle due figlie a Tel Aviv, Eva Hoffe (morta l’agosto scorso a cento anni). Fu lei, con signorilità ma con molta determinazione giuridica e personale a rivendicare nel processo i diritti ereditari di cui alla fine fu privata senza un soldo di rimborso.
La tesi dell’Archivio di Marbach naturalmente era che Kafka fosse in modo del tutto evidente un autore tedesco di lingua e di animus benché nato e vissuto a Praga; che non aveva mai messo piede in Israele, che del sionismo non gliene importava un bel niente, che la sua statura universale doveva essere conservata mostrando rispetto per il suo contributo alla letteratura in tedesco. La cosa fu sostenuta con decisione e con spirito combattivo: quando le cose si misero male, Marbach sarebbe anche addivenuta a un compromesso con Eva che invece fu fieramente respinto da Rubinstein. Il testamento di Brod che rendeva Esther l’erede universale aggiungeva una clausola per cui la istruiva a depositare il materiale o nella Biblioteca nazionale di Israele, o nella Libreria municipale di Tel Aviv. E mentre Brod nella sua vita tutto fece fuorché prendere profitti dal lavoro dell’amico geniale, Esther aveva già venduto dei pezzi, e questo influì negativamente.
Ma è l’animus quello che prevalse. Balint è un testimone più equilibrato persino del giudice, sente tutti, parla con tutti, capisce le ragioni di ciascuno e le descrive in un inglese meraviglioso. Kafka una volta disse «Che cosa ho in comune con gli ebrei? Non ho quasi nulla neppure in comune con me stesso». Ma non era così: nelle se lettere e nei suoi diari i riferimenti all’ebraismo sono infiniti. Era molto interessato al teatro Yiddish; il suo contatto con la Bibbia, la Kabbala, il Talmud è evidente. Kafka di fatto studiò l’ebraico con Dora, frequentò delle lezioni di Talmud, fece esercizi di scrittura, come se si preparasse a scrivere in ebraico. Con Dora fantasticarono un trasferimento romantico in Israele, dove avrebbero aperto un caffè. Ma più di questo convince la novella scritta da Brod nel 1925: egli si figura che un fratello di Kafka in un moshav riveli che il genio nel suo cuore era un vero sionista, e che ha lasciato altrettante pagine in ebraico quante in tedesco.
Marbach puntò molto sulla manchevole accoglienza che Israele dedicò all’opera di Kafka, non avendone mai pubblicato l’edizione completa, avendolo tradotto tanto lentamente da prendere in mano Il castello solo nel 1967... La Biblioteca nazionale di Gerusalemme, scandalosamente, non possiede l’edizione critica di Kafka completata in Germania nel 2004.
Perché tutto questo? Ma perché Israele, nonostante il lungo sforzo di riavvicinamento, ha un conto aperto con la lingua tedesca e con tutto quello che è tedesco in generale, anche se Kafka era un ebreo di Praga. E alla fine era indispensabile che Israele recuperasse gli scritti portati da Brod proprio per sfuggire al genocidio. Li portò là al posto del suo amico, che se avesse potuto ce li avrebbe sicuramente portati lui salvando sé stesso e la sua immortale letteratura. C’è qualche dubbio su questo?