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 2018  novembre 28 Mercoledì calendario

Da Brenno a Hitler, il mito dell’oro di Roma

In genere il primo contatto che abbiamo con l’oro, a parte i doni che i bimbi ricevono al battesimo, ha a che fare con la spada di Brenno: «Guai ai vinti!», disse il condottiero gallo gettando la spada sul piatto, ad aumentare il peso dell’oro chiesto per riscattare Roma. Adesso il presidente della commissione Bilancio della Camera Claudio Borghi vuole riscattare l’intera Italia gettando sul piatto tutto l’oro di Bankitalia.
Altri analizzeranno l’aspetto finanziario dell’idea, ma si possono già immaginare i luccichii negli occhi di chi apprenderà con questa notizia che abbiamo la quarta riserva aurea del mondo. L’oro fa sognare da sempre, piaceva anche al Dio della Bibbia, che chiese a Mosè di costruirgli tutto «d’oro puro», candelabri, coppe, piatti, tanto che gli ebrei gli doneranno addirittura un vitello, sempre d’oro.
Sono infiniti gli episodi, di ogni epoca e luogo, che si potrebbero raccontare sul «metallo prezioso», che è tale solo perché l’abbiamo deciso da tempo immemorabile. Ma, ora che Borghi vuole salvare la patria con l’«oro dalla patria», viene subito in mente il mussoliniano «oro alla patria»: anche quello doveva salvare l’Italia. Il duce, nel 1935, voleva ribattere alle sanzioni della Società delle Nazioni per l’aggressione all’Etiopia, e istituì la Giornata della Fede, il 18 dicembre 1935. La fede era quella nel fascismo ma anche, più prosaicamente, quella che gli sposi portavano all’anulare: ne furono raccolte 250.000 solo a Roma e 180.000 a Milano, per non dire delle medagliette senatoriali di Luigi Albertini, Benedetto Croce, Guglielmo Marconi, e della medaglia del premio Nobel di Luigi Pirandello. In tutto vennero raccolte 37 tonnellate d’oro e 115 d’argento. Un risultato abbastanza buono per vincere la guerra d’Etiopia, ma non quella ben più terribile che sarebbe venuta dopo.
Proprio nella Seconda guerra mondiale i tedeschi ripetettero la raccolta con le cattive nel ghetto di Roma: il 26 settembre 1943 pretesero che in poche ore gli ebrei raccogliessero 50 kg d’oro: non ce l’avrebbero fatta, ma grazie a uno slancio di generosità dei romani si arrivò a recuperarne 80, di cui 30 vennero nascosti e poi versati per finanziare la nascita dello Stato di Israele.
Ai nazisti andò meglio non con la generosità, ma con l’inefficienza romana. La Banca d’Italia aveva un enorme deposito di 119.252 chilogrammi d’oro, e dal 1941 Mussolini pensava di farli mettere al sicuro a L’Aquila. I lavori per le strutture blindate andarono così a rilento che alla caduta del fascismo, due anni dopo, l’oro era ancora a Roma. Si pensò ancora di trasferirlo ma ci fu un usuale pasticcio di competenze (fra il governatore e il direttore generale della Banca d’Italia), e le 119 tonnellate rimasero nella capitale prima di prendere la strada per la Germania: ne sarebbero stati recuperati soltanto due terzi (Sergio Cardarelli e Renata Martano, I nazisti e l’oro della Banca d’Italia. Sottrazione e recupero 1943-1958, pubblicato dal Giornale due anni fa).
Non è mai stato ritrovato, invece, l’«oro di Dongo», il tesoro leggendario che Mussolini avrebbe avuto con sé nell’aprile del 1945, prima di venire catturato e ucciso. Certamente molti valori finirono nella casse del Partito comunista italiano.
Queste vicende oro ai nazisti, oro ai comunisti richiamano a una cencelliana spartizione storica. Che però non sarebbe completa senza un bell’esempio della Prima Repubblica: ricordate Duilio Poggiolini, direttore generale del Servizio farmaceutico, con i suoi puff pieni di lingotti d’oro?