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 2018  novembre 28 Mercoledì calendario

Con Ghosn è finita la stagione dei supermanager globali

Ci vorrà tempo per comprendere le conseguenze scatenate dall’arresto di Carlos Ghosn, l’artefice dell’alleanza fra Renault, Nissan e Mitsubishi che l’anno scorso ha venduto 10,6 milioni di autoveicoli nel mondo, avvenuto lunedì 19 novembre a Tokyo. A leggere la stampa francese e i commenti da Parigi, si direbbe che in Giappone sia stata condotta a termine per via giudiziaria un’operazione simile a un cambio di potere al vertice di Nissan, impresa stanca della tutela e della preminenza di Renault all’interno dell’alleanza.
Non che non ci sia sostanza nelle accuse che sono state mosse a Ghosn, precipitato dal ruolo di salvatore del gruppo nipponico quando esso era in profondissima crisi vent’anni fa a quello di manager sregolato, pronto ad approfittare di tutti i margini offerti dalla sua posizione di presidente di Nissan per accumulare soldi e vantaggi personali in maniera illecita. Dal 2011 al 2017, Ghosn avrebbe occultato al fisco la metà dei propri ingenti compensi (per un valore complessivo intorno ai 50 milioni di dollari). Nel suo stile di vita da manager globale, continuamente in viaggio da una capitale all’altra, avrebbe scaricato su Nissan i costi delle abitazioni di lusso in cui amava vivere, come delle sue altre spese private (dalle vacanze alle feste). Grazie al suo potere avrebbe fatto attribuire alla sorella una consulenza da 100.000 dollari all’anno priva di contenuti reali. Accuse al momento non formalizzate e sulle quali il governo francese (che controlla il 15,01% del capitale di Renault, capofila dell’alleanza) non ha ancora appreso nulla di specifico. Di qui il sospetto verso Nissan, che ha svolto una parte determinante nel costruire il dossier contro Ghosn, di voler minare l’alleanza col partner francese.
Eppure, le prospettive di mercato del polo Renault-Nissan-Mitsubishi erano, prima dell’arresto di Ghosn, ottime: la previsione era di vendere 14 milioni di veicoli nel 2022, collocandosi alle primissime posizioni dell’industria dell’auto mondiale. L’alleanza era in una solida condizione tecnologica, perché le sue piattaforme elettriche sono oggi tra le più affermate. Che sarà di tutto questo dopo l’estromissione di Ghosn dal vertice di Nissan?
Il problema era che l’alleanza, così com’era stata concepita e realizzata quando Nissan era in crisi e Ghosn era stato inviato da Renault per salvarla e rilanciarla, non funzionava più. Negli ultimi anni è stata la casa produttrice giapponese a segnare i risultati migliori, ma erano i francesi a detenere il 43% del suo capitale (contro il 15% che Nissan detiene di Renault, per giunta senza diritti di voto). Così l’alleanza non poteva più reggere a lungo e Ghosn stava progettando di trasformarla in una vera fusione fra imprese. Tuttavia questa soluzione era proprio ciò che i giapponesi temevano. Da questo punto di vista, la defenestrazione di Ghosn è arrivata al momento opportuno.
C’è comunque qualcosa di paradossale in tutta la vicenda che induce a domandarsi se la caduta di Ghosn non costituisca un passaggio d’epoca. Anzitutto perché il metodo di governo su cui si è retta per anni l’alleanza franco-giapponese è stato quasi inesistente. Tutto si fondava sulla capacità di Ghosn di tenere assieme un incrocio di partecipazioni e di interessi (politici, nel caso della Francia, oltreché economici) estremamente complesso. Non c’era governance, come ha notato l’Economist, tutto finiva per ruotare attorno alla figura di un solo manager, indispensabile al funzionamento dell’alleanza. Peccato che in questa maniera, alla lunga, non si possa dirigere un grandissimo gruppo industriale.
Ghosn aveva un suo staff e un nucleo di collaboratori a lui fedeli (fin troppo, visto che uno di loro, Greg Kelly, è stato arrestato assieme a lui, con l’accusa di aver favorito la frode fiscale). Essi gestivano un’agenda su scala mondiale che aveva scadenze ferree, con una programmazione lunga e meticolosa. Ma le decisioni di ultima istanza toccavano a Ghosn, forte dell’enorme potere che aveva concentrato su di sé e che cercava di mantenere anche dopo aver delegato alcune responsabilità esecutive a un manager giapponese, Hiroto Saikawa, conservando la presidenza. D’altronde, Ghosn è stato uno degli artefici della globalizzazione, di cui ha rappresentato una personificazione, una figura simbolica.
Difficile non pensare che la sua caduta repentina, all’interno del contesto che è stato richiamato, non sia anche un segnale della crisi della globalizzazione. Nello scacchiere politico ed economico attuale, l’impresa globale – al modo in cui l’ha interpretata Ghosn – non funziona più. Non c’è dubbio sul fatto Nissan voglia riappropriarsi non solo di una maggiore libertà che i vincoli dell’alleanza a egemonia francese non le consentivano, ma anche di caratteri e di uno stile manageriale più in linea con la storia economica e istituzionale dell’impresa giapponese. Oggi tendono a riprendere forza modelli organizzativi che si rifanno alle esperienze continentali e si torna a parlare di imprese che hanno, sì, respiro globale, ma radici ben affondate dentro alla storia europea, nordamericana, asiatica. Dove contano le squadre manageriali e in cui c’è minore spazio per i grandi solisti, capaci di coniugare, grazie alla loro leadership e alla loro determinazione personale, realtà lontane e fra loro eterogenee. È probabile dunque che nel futuro, contrariamente a quello che ci era stato pronosticato, vedremo meno fusioni globali e semmai più intese di carattere specifico, soprattutto sul fronte della collaborazione in campo tecnologico.