il Fatto Quotidiano, 28 novembre 2018
Fatima, 18enne incinta, si è gettata sui binari. Parla la macchinista che l’ha travolta
“Io ho pensato che questa storia sia accaduta a me perché questa storia andava raccontata”. Mentre domenica si celebrava la giornata contro la violenza sulle donne, la vita di due donne tra loro sconosciute si incrociava tragicamente sul binario di una stazione. La città è Pontedera. Le due donne si chiamano F. e Fatima. F. è una macchinista. Fa questo lavoro considerato da uomini (secondo gli ultimi dati le macchiniste donne in Italia sarebbero 63 su 7800) e lo fa da tanti anni. Domenica pomeriggio è alla guida di un treno vuoto, sta effettuando uno spostamento di servizio. Con la coda dell’occhio vede un guizzo, qualcosa di rosso che si muove veloce. Poi sente una botta secca. Capisce. Si è concretizzata la sua paura di sempre, quella che l’ha accompagnata dal primo giorno in cui ha iniziato questo lavoro. Sono le 17. Pochi attimi prima, in stazione, una ragazza sbuca da un sottopassaggio. Corre veloce tra le persone che aspettano il loro treno. Ha 18 anni, si chiama Fatima, è di origini marocchine e ha una vita difficile. È incinta di tre mesi e non vuole più vivere. Nessuno fa in tempo a fermarla. Si lancia sotto quel treno “senza passeggeri”, come scriveranno tutti.
Ed è vero che su quel treno non c’erano passeggeri, ma c’era una donna che lo stava guidando. Che si è fermata 400 metri dopo, che ha capito subito, che ha visto per un attimo quella cosa rossa, che ha sentito il tonfo secco sulla fiancata. Perché quando qualcuno si lancia sotto un treno – non ci si pensa mai – c’è anche qualcuno che viene investito in un altro modo, dal dolore di chi non poteva fare nulla ma che era comunque lì, alla guida di quel gigante di ferro che non lascia scampo. E infatti Fatima, col suo bambino in pancia, muore subito. Muore il 25 novembre, il giorno in cui si dice basta alla violenza sulle donne, lei che alle spalle aveva un’esistenza di maltrattamenti e solitudine. Ricostruire la sua vicenda non è facile. Pare che Fatima, tempo fa, avesse denunciato una prima volta maltrattamenti in casa e che fosse stato attivato il codice rosa. Aveva iniziato un percorso protetto in una struttura per minori nel centro di Pontedera. Poi aveva riallacciato il rapporto con la famiglia, era tornata a casa, ma dopo un po’ era ancora al pronto soccorso. Aveva denunciato nuovi maltrattamenti. Si era riattivato il percorso protetto nella casa famiglia. Nel frattempo, fuori da lì, aveva conosciuto dei ragazzi che spacciavano, che avevano una cattiva influenza su di lei, così giovane, così problematica. La struttura aveva fatto in modo che venisse trasferita lontana da Pontedera. Laggiù Fatima era diventata maggiorenne. Era andata via. A quel punto in quel brutto giro, rimane incinta di un ragazzo. Da questo momento in poi la vicenda si fa fumosa. Pare che lui finisca in galera. Quel che è certo è che lei resta sola. Senza più riferimenti, senza la famiglia di origine da cui tornare, senza più nulla.
“Una donna subisce violenza non soltanto tramite la meschina aggressione fisica e l’intimidazione verbale, ma pure attraverso il silenzio subdolo della solitudine; soprattutto nei momenti in cui le avversità della vita avvelenano le radici già deboli della speranza”, ha scritto ieri il sindaco di Pontedera Simone Millozzi su Facebook, nel ricordare Fatima. E poi c’è lei, F., la macchinista. “Ho visto questo puntino rosso che si faceva spazio tra la folla. Pensavo che il rosso fosse il colore dei suoi capelli, invece ho saputo dopo che era il velo…”, mi racconta quando la contatto. È ancora scossa. Non cerca attenzione per se stessa, mi chiede di rimanere anonima. “Io mi ero preparata tanto a questa eventualità, quando si decide di fare questo mestiere è qualcosa che si mette in conto, ma è una cosa che sappiamo, che ci diciamo con pudore tra colleghi. Al di fuori non ci si pensa mai”. “Quando si parla di suicidio sotto un treno si associa il fatto al convoglio, ma c’è qualcuno che lo guida questo treno. C’è una persona che in qualche modo è vittima assieme a chi muore. Certo si sopravvive, ma il trauma è forte”. F. ha la voce rotta dall’emozione. Mi dice che nel ricordare l’incidente, subito dopo l’impatto, ha un buio di qualche secondo. Che il collega che era con lei sul treno le ha raccontato che si è alzata in piedi, ha dato un pugno sul banco di manovra e ha gridato “Si è ammazzata!”. Poi F. mi dice una cosa straziante e bellissima. “Sai, io dopo arretrando col treno ho visto la calce sul marciapiede, sono stata male. Non volevo neppure sapere troppo di questa persona, mi dicevano che era meglio così. Poi ho letto la notizia sui siti, sui giornali, la storia di questa ragazza incinta di 18 anni. Allora ho pensato che fosse destino. Io non dovevo essere neppure lì a quell’ora, avevo tardato, il treno aveva subito un guasto. Doveva capitare a un altro macchinista. Invece è capitato a me. Ero l’unica donna che lavorava domenica nella mia regione. Non potevo salvarla – andavo a 130, come facevo – ma forse è capitato a me – a una donna – perché io potessi dare voce alla storia di questa ragazza. E in fondo anche un po’ a quella di noi macchinisti che senza poterlo evitare, ci troviamo coinvolti in queste tragedie, senza che si sappia mai”.
Dico a F. che a voler credere alle strane coincidenze, tutto questo è capitato domenica, in un giorno in cui si celebravano le donne, il loro diritto a una vita felice. “L’ho pensato. Così come ho pensato alle cose orribili che avevo letto su una pagina fb proprio domenica a commento di questa notizia. C’erano persone che rimproveravano la ragazza perché non aveva abortito, perché non aveva preso la pillola, frasi crudeli. Io invece, da donna, penso ad altro: penso che magari questo bambino un giorno sarebbe potuto essere la sua gioia, la sua risorsa, ma lei era così giovane e non lo sapeva”. F. non poteva salvarla, ma ha potuto ricordarla. Ha potuto dare voce alla storia di una ragazza infelice, la cui morte ha trovato a malapena spazio nelle cronache locali, mentre i treni e le vite di tutti hanno ripreso il loro traffico regolare.