Tuttavia ha cercato sino alla fine di realizzare un altro film, e, nonostante le difficoltà, ha partecipato con grande generosità e passione a incontri ed eventi.
«Era un modo per esorcizzare l’angoscia che lo attanagliava: l’ultima volta che l’ho visto mi ha detto "sono disperatamente allegro". Ma poi si è corretto: dovrei dire "allegramente disperato". Ha fatto bene a lottare sino alla fine, ma gli ultimi giorni sentivi nel tono della voce che prevaleva il dolore dell’inerzia.
Voleva certamente lavorare e creare, due elementi che nel nostro lavoro combaciano, ma sapeva di non averne più l’energia, e viveva questa situazione come una sconfitta: l’unica cosa che è riuscito a salvarlo è stata la ricerca, crescente e costante di qualcosa che dimostrasse che la vita non è solo materia destinata a morire. È per questo che parlava di allegria nella disperazione. La generosità è un aspetto che in pochi conoscono di Bernardo: era un uomo gentile e curioso degli altri, un vero umanista. Mi chiedeva sempre cosa stessi facendo, e prediligeva alcuni miei lavori che non mi sarei mai aspettato, come Nato il quattro di luglio: devo a lui se ho capito alcune cose dei miei stessi film».
Come vi siete conosciuti?
«A una festa negli anni Settanta: lui era in America per la promozione di Novecento.
In quel party circolava molta droga e entrambi avevamo voglia di divertirci: mettiamola così, la nostra prima intesa non è stata cinematografica… C’è un altro elemento da ricordare: Bernardo era irresistibilmente mondano.
Sapeva esserlo con eleganza e una punta di snobismo, e questo lo rendeva ancora più affascinante. Io non avevo amato molto Ultimo tango: trovavo che fosse stato rovinato dall’interpretazione di Maria Schneider, a mio avviso attrice molto modesta, ma ero entusiasta di conoscere il regista del Conformista,che ritengo tuttora un grande capolavoro. Glissai sul Tango e parlai soltanto del secondo: lui mi invitò a vedere
Novecento, che mi piacque immensamente, specie nella prima parte. Da allora l’ho visto almeno dieci volte».
Cosa ha trovato meno convincente nella seconda parte?
«L’intimità lascia il passo all’ideologia, e questo finisce per limitare un’opera che invece per molti versi è straordinaria. Una delle caratteristiche del cinema di Bernardo è stata la capacità di combinare l’epica del grande spettacolo con l’intimità. Mi viene in mente soltanto David Lean che è riuscito a farlo con uguale talento e grandezza. Il tutto raccontato con immagini raffinate che nascono all’interno della grande cultura europea».
Qual era la forza del cinema di Bertolucci?
«Quel che riusciva a dire in maniera indiretta nei suoi film: ho assistito a una presentazione del Conformista al MoMA nel quale tutti si aspettavano che parlasse di fascismo e invece lo descrisse come la storia di un uomo che ha paura della propria omosessualità. È la vera storia del film, ed è quella decisamente più interessante. Sul piano del linguaggio amo molto i movimenti sensuali della macchina da presa e l’uso delle musiche. C’era qualcosa di geniale nel modo in cui Bernardo riusciva a raccontare con le immagini.
Insomma amo la sua concezione spettacolare, anche quando raccontava il dramma di personaggi all’interno di quattro mura. Oggi tutti parlano del suo amore reverenziale per Godard, ma il suo film preferito era Via col vento, al punto da chiamare Tara la località dove è ambientato Novecento: è il nome della tenuta del film di Victor Fleming.
Il rapporto con Godard è assolutamente vero, ma non dimentichiamo che il personaggio del mentore che viene ucciso dal protagonista nel Conformista ha il suo indirizzo e telefono».
Qual è l’ultimo ricordo?
«Una telefonata recente, nella quale l’ho invitato a farsi visitare da uno specialista americano: ho sempre avuto l’impressione che avessero sbagliato ripetutamente le operazioni chirurgiche, o forse non ha mai rivelato del tutto cosa avesse in realtà. Ho capito dal tono con cui mi ringraziava che lo considerava un tentativo inutile.
Poi, quando mi ha detto "fai bei film, mi raccomando", ho capito che non lo avrei più visto».