Corriere della Sera, 28 novembre 2018
In Italia sono aumentati gli alberi. E non è una buona notizia
Ci sono due modi di pensare un paesaggio. Almeno secondo il professor Mauro Agnoletti. Uno estetico, di chi sostiene l’idea di una natura non contaminata, appartenente a un mitico stato originale. L’altro più realistico, fedele allo sviluppo della storia. Che al contrario traccia paesaggi segnati e modellati dall’uomo. L’Italia, dice Agnoletti, ordinario di Storia del Paesaggio e dell’ambiente all’Università di Firenze, rientra nel secondo. «Questa è la sua forza, il suo valore». Un valore tuttavia messo in discussione. Prova ne è (o sarebbe) lo stato di salute dei nostri boschi. Argomento (Storia del bosco) a cui il professore ha dedicato un libro di oltre 300 pagine.
Ne parla ai convegni, nelle sedi internazionali (collabora con Fao e Unesco) e lo spiega agli alunni: «Il paesaggio non è mai solo un prodotto della natura. Il bosco si muove, si modifica». La superficie boschiva occupa un terzo del territorio italiano, quasi 12 milioni di ettari (per l’esattezza: 11.778.249). Solo ottant’anni fa erano meno di cinque milioni. Un dato positivo? No, replica il professore. «Di questo territorio solo un terzo è utilizzato. Il resto è abbandonato. Nonostante l’abbondanza, l’Italia importa l’85% di legna. Una boscaglia non gestita non svolge alcuna funzione. Perde il valore economico, sociale e culturale».
Ci sono cause precise. Momenti di cesura. Motivi che spiegano l’abbandono dei boschi e la loro deriva, la boschizzazione del territorio. Agnoletti ricorda l’industrializzazione del secondo dopoguerra e la globalizzazione dei mercati (importazione di grano, latte e legname a costi più bassi). A cui aggiunge un fattore culturale, ideologico. Quello che fa capo all’idea di una natura estetica, che va difesa dalla mano dell’uomo – ideologia nata nei Paesi del Nord Europa – e che ha trovato spazio nella nostra legislazione. «Tutti i boschi sono soggetti a vincoli a partire dalla legge Galasso del 1985. L’idea distorta della conservazione finisce per far sì che nel bosco non si possa più fare niente».
Ma cos’è oggi il bosco? Cosa s’intende con questo termine che ai tempi dei latini era sinonimo di pascolo? C’è una definizione di legge (generale) che riguarda una certa percentuale di terra coperta da alberi. Poi ogni bosco presenta una diversa densità di piante a seconda della sua tipologia (pascolo, produzione di legna, conifere e latifoglio). «Quando dico ai miei studenti che i boschi sono stati piantati e modellati dall’uomo ci restano male. Come se fossero delusi dall’idea che hanno introiettata di natura».
Poche settimane fa il dramma degli alberi caduti tra Veneto e Trentino a causa del maltempo. «Anche quei boschi sono il risultato dell’azione umana. Lì a partire dal ’500 sono state piantate conifere al posto dei faggi. Oggi coprono l’80%. Le conifere hanno però un ancoraggio meno stabile. In presenza di eventi come le raffiche di vento a 180 all’ora, vanno giù come birilli. Abbiano smesso di coltivare il bosco mentre la quantità di alberi piantati per ettaro è aumentata di 5-6 volte».
I paesaggi forestali di cui parla Agnoletti sono sempre segnati. Che si tratti dei boschi della Sila e dell’Aspromonte, degli alberi delle Alpi Orientali o dei querceti toscani (la prima regione per estensione boschiva). La Maiella è un paesaggio fatto dai pastori eppure è un’area soggetta a forti vincoli. «Più pascoli nei boschi significa qualità del latte e delle carni. Ne sanno qualcosa i nostri cugini spagnoli che fanno pascolare i loro maiali all’aperto. Negli anni Settanta per questo motivo li consideravamo poco svegli. Noi, si diceva, in dodici mesi facciamo il prosciutto. Oggi il loro Serrano si vende e costa molto di più dei nostri».
Meno bosco ma più gestito. L’esempio da seguire c’è: l’Alto Adige. «Lì si è deciso che ci dev’essere equilibrio tra bosco e pascolo, intervento dell’uomo e natura. Montanari seri, hanno capito che il paesaggio dev’essere culturale altrimenti la gente non ci va».